Il panico e la fame



Vari mesi fa ho parlato del panico e del cibo, e mi sono stupita di non averlo fatto prima.

Mi accorgo ora che non ho mai scritto nulla sul panico e sulla fame. Dietro al panico per il cibo c’è lei. È quasi come se fosse una persona, che parla con una voce strana, a volte bassa, altre volte altissima. Quasi sempre difficile da non ascoltare.

La fame non c’è sempre stata. Non riesco a ricordare la fame di quando ero bambina. La fame non c’era, quando ero bambina. Ricordo tante merende dopo scuola, numerosi pic-nic quando faceva caldo, infiniti gelati al mare, insieme alle regole di mia madre e di mia zia per impedire a me, a mia sorella e a mia cugina di mangiarne più di due al giorno. Ma non trovo la fame.

La fame è arrivata solo ad un certo punto.

Non so se sia arrivata di colpo. Secondo me si è intrufolata a poco a poco negli spazi che trovava, di soppiatto.

Però se chiudo gli occhi riesco a vedere il suo arrivo, la sua entrata trionfale, il momento in cui ha urlato: “Eccomi, sono qui!”

È arrivata con un pezzo di pizza.

La pizza margherita è troppo calda. Non la posso mangiare, devo aspettare. Sono sull’autobus, tornando da scuola. Sono le 14 passate. Ho quattordici anni e mezzo, faccio il quarto ginnasio al Tasso, a Roma. L’autobus parte da piazza Fiume e scende su via Nizza.

E io guardo la mia pizza. Troppo calda, troppo grande, troppo unta, troppo buona. Mi invade. Sbocconcello qualche pezzetto, ma è bollente e non ci riesco. Mi guardo intorno. Di sicuro tutti ci stanno guardando, me e la mia pizza. È impossibile non notarla. Si annusa, si vede, si sente. È così troppo di tutto, non è possibile non notarla. Io mi sento troppo, come la mia pizza. Di sicuro notano anche me, che mangio questa pizza buonissima sull’autobus, come se l’autobus fosse casa mia.

Mi faccio forza e provo a morderne un altro pezzettino. Vedo che non c’è mozzarella e mi rendo conto che è tutta scivolata giù, ha creato un malloppo unto alla fine della pizza, e sta spingendo la carta sempre di più con la forza del suo unto, la carta non ce la farà a resistere, si spaccherà, l’unto travolgerà me e poi l’autobus, tutti mi odieranno, non ci dovevo salire sull’autobus, anzi, no, non ci dovevo salire con la pizza, non dovevo proprio comprarla la pizza, che è una cosa così superflua. Della pizza posso farne a meno, dell’unto no. Della vergogna no. Incarto la pizza e decido di non mangiarla. Mi sento meglio.

La fame era arrivata ed era diventata una corazza con cui ero convinta di proteggermi da tutto quello che non andava.

Se qualcuno mi avesse chiesto se lo facevo per diventare magra, bella, attraente e perfetta e mettermi vestiti strettissimi che non stanno bene mai a nessuno tipo le gonne o i vestiti a righe orizzontali e in realtà tutte le cose a righe orizzontali perché le righe orizzontali si sa ingrassano e stanno bene solo a quelli molto magri, oppure per mettere quei pantaloncini cortissimi che fanno vedere tutte le gambe, io avrei risposto no, io lo faccio per la fame.

Io non mettevo vestiti attillati ma felpe grandi, sempre le stesse. Ma dentro alle felpe c’era la fame che mi teneva compagnia.

La fame continuava a tenermi compagnia incessantemente, anche quando io non volevo più tanto ascoltarla e volevo restare per conto mio, perché era diventata scomoda.

La fame invece voleva rimanere. Anche quando pensavo che fosse andata via, lei rispuntava sempre fuori. Soprattutto quando ero stanca o di corsa, oppure quando ero triste. La vedevo che sorgeva dalla mia tristezza.

Qualche volta la riesco a scorgere che spunta ancora adesso. Qualche volta, senza che me ne accorga, la ritrovo accanto a me che parla.  

Mi dispiace farle fare un monologo, quindi un po’ le rispondo. Non troppo però, appena. Come quando si sta parlando al telefono e non si sa come fare per attaccare, e allora ci si limita ad annuire con sempre meno insistenza, sperando che l’altro colga il messaggio.

Anche la fame, come tutte le persone dall’altra parte del telefono quando si annuisce e non si è chiari, non coglie bene il messaggio. Allora la lascio lì a parlare da sola, magari alla fine non è così brutto. Oppure le parlo sopra io e non la sento più. Oppure mangio e sorrido e lei non c’è più.

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