Il panico e il cibo



Non so perché io non abbia ancora scritto nulla sul panico per il cibo.

È un panico consistente. Forse è proprio per questo. È un panico talmente consistente che non saprei da dove iniziare per parlarne.

Ci sono tante e tante cose da dire.

Una è che quando ero piccola non sapevo proprio cosa fosse il panico per il cibo. Cibo e panico erano due parole destinate a non incontrarsi mai, come le rette parallele che le maestre facevano vedere a scuola, e a me veniva da continuare a disegnarle per vedere se veramente non si incontrassero mai, magari ad un certo punto invece si incontravano.

Io da piccola mangiavo tutto. E con tutto intendo proprio tutto. Le uniche cose che proprio non mi andavano giù erano le polpette di pesce e lo sformato di patate della mensa. E la mia maestra, in genere severissima quando si trattava di finire il cibo, con me faceva un’eccezione, perché mangiavo proprio tutto. Mangiavo anche le cose che i bambini non mangiano. Quando andavo dai miei compagni di classe, i genitori davano a me tutte le cose che ormai avevano rinunciato a dare ai loro figli: il pesce, la frutta, gli spinaci. E io sorridevo, prendevo la forchetta e finivo tutto.

Quando in quarto ginnasio ho smesso di mangiare mia madre non riusciva  a capire: ma tu mangi tutto, continuava a ripetere. Solo che mi ero stufata e avevo deciso di passare dal mangiare tutto al non mangiare niente. Al panico non piacciono le mezze misure.

Non so bene perché mi fossi stufata. Non è che l’avessi proprio deciso: adesso non mangio più.

Era capitato.

Mi ero trovata in una scuola enorme con gente enorme e un cortile troppo affollato e quindi, come reazione, a me era venuto il panico per il cibo.

All’inizio non avevo capito che era arrivato. Mia madre se ne era accorta prima di me e un pomeriggio mi ero trovata nello studio di una nutrizionista che mi chiedeva: “Perché sei qui?” e io le rispondevo: “Mi ci ha portato mia madre. Dice che non mangio.”

“Cosa hai mangiato oggi?”

“Ho fatto colazione.”

Erano le sei di sera.

E così era iniziato il panico per il cibo. Che aveva tante e tante varianti diverse: il panico del cibo da mangiare a casa, di quello da mangiare fuori, il panico della lista del cibo da seguire, della pasta da contare per accertarsi di mangiarne davvero 90 grammi e non 92 o 93, il panico del mangiare la pasta a casa di qualcun altro, dove non si può contare la pasta e allora forse sono addirittura 95 grammi, il panico di mangiare da sola, il panico di mangiare alle feste. In alcuni casi questi tipi di panico andavano in soccorso ad altri tipi di panico.

Il panico della socialità: vedo o no questa persona? Non la vedo, perché non saprei cosa mangiare. Il panico delle feste: vado o non vado alla festa? Non saprei cosa mangiare: non vado. Il panico delle scelte: mangio questo o quest’altro? Non ne mangio nessuno. O, se proprio devo mangiarne uno, faccio decidere la lista la posto mio.

Il panico del cibo era un facile metro per valutare le situazioni e scegliere come comportarsi. C’era sempre un panico per il cibo disponibile ad ogni occasione. Se ne potevano anche creare di nuovi sul momento.

Negli anni ho creato tanti e tanti tipi di panico per il cibo.

Poi mi sono un po’ stufata. Anche in questo caso, non è che io l’abbia proprio deciso.

Ho pensato che magari tutti gli altri tipi di panico che io neutralizzavo con il panico per il cibo in realtà non erano poi così male. Forse erano meglio.

O almeno erano diversi.

E quindi ho deciso di ripensarci. Ho deciso che magari potevo tenermi il panico per il cibo ma tenere anche tutti gli altri tipi di panico a fargli compagnia, e non dare importanza solo a lui. 

Secondo me ha un po’ funzionato.

Il panico del cibo ha trovato degli amici e si è stancato di fare tutto da solo.

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