Il panico e la nostalgia
Quando ero piccola avevo nostalgia di tutto.
Anche quando mi trovavo a vivere un certo momento, e quindi
non potevo ancora averne nostalgia, pensavo a quando sarebbe finito e già la
immaginavo. Mi preparavo ad averne nostalgia per non arrivare impreparata.
Quando andavo in quinta elementare, avevo nostalgia di
quando andavo in prima, e tutto era grande e nuovo.
Quando andavo alle medie, avevo nostalgia di quando andavo
alle elementari.
Quando tornavo dalle vacanze, avevo nostalgia della casa del
mare.
Quando partivo per le vacanze, avevo nostalgia della casa di
Roma.
Quando finivo un libro che mi piaceva tanto, avevo nostalgia
di quando lo avevo iniziato.
Quando andavo al cinema e il film stava finendo, avevo
nostalgia di quando ero entrata nella sala e il film era appena iniziato.
Quando era finito il mio compleanno, avevo nostalgia di
quando era appena iniziato.
Mi ritrovavo nella casa con tutti i festoni e il disordine
(per qualche anno di seguito, alle elementari, la casa era quella di mio nonno,
e ancora mi chiedo come accettasse l’invasione da parte di venti bambini che
correvano sfrenati, rischiando di far cadere oggetti di ogni tipo). Guardavo i
regali e le cartacce e il vuoto intorno e questo vuoto intorno sembrava
trasferirsi dentro alla mia pancia.
La nostalgia sembrava spesso togliere bellezza alle cose,
perché pareva cancellare tutto quanto. Come se, con la nostalgia, andasse via
tutto il prima e rimanesse solo lei.
Non ho mai ben capito quando in un libro o in un film, o
anche nella vita reale (ma mi sembra meno nella vita reale) le persone dicono:
“Sono proprio contenta o contento, ho passato una giornata bellissima”. A me è
sempre sembrata una frase strana da dire. Una frase triste. Una frase
inappropriata.
Questa mi sembra più adatta: “Quella leggera angoscia che
prende alla fine delle giornate troppo felici”. Non l’ho scritta io ma Alain
Fournier in Il Grande Meaulnes, forse uno dei libri più pieni di nostalgia
che io abbia mai letto. Non so bene cosa sia, forse è il suo stare in mezzo tra
un momento e un altro, tra un mondo che sta finendo, quello misterioso della campagna
di fine Ottocento, e un mondo che sta iniziando, quello della città all’inizio
del Novecento. Ma non è solo questo. È il modo che il protagonista ha di guardare
le cose.
Ma non è neanche solo questo. È un insieme di cose, perché trovo difficile (e inutile)
scomporre i libri in un’equazione perfetta per trovare cosa c’è dentro di loro,
cosa è stato inserito da noi e cosa è stato creato dall’incrocio dei due mondi,
quello dentro al libro e quello fuori.
A me questo libro è piaciuto molto.
Perché sa di nostalgia.
La nostalgia da sola, quando non è “messa” da nessuna parte,
non so se mi piace tanto. Un po’ sì, in realtà. Un po’ no, perché prende allo
stomaco e io non capisco bene che fare, assillo A con tutti i motivi per i
quali provo nostalgia, motivi che lui non sembra vedere, come racconto qui.
Quando ero piccola non riuscivo proprio a proteggermi dalla
nostalgia, arrivava come un enorme fiume grigio-blu pronto a sommergermi e a
trascinarmi con sé, io ero in balìa del fiume e a volte lo sentivo ovunque
questo fiume: nella pancia, nel petto, nella gola, dietro gli occhi. Il fiume
faceva girare la testa e io volevo dirgli di fermarsi.
Adesso la nostalgia non fa più così paura. Adesso cerco di
osservare il fiume.
Adesso ho nostalgia di quando ero piccola. Ed ero invasa dal
fiume blu.
Photo by Ardian Lumi on Unsplash
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