Il panico e i fallimenti (e lo studio)

Non mi era mai capitato di fuggire ad un esame. 

Mi capitava nei compiti in classe a scuola, ma lì più che fuggire iniziavo a piangere disperata e a bagnare il foglio, le professoresse si convincevano che avessi problemi gravissimi a casa dei quali non volevo parlare e io mi vergognavo di dire che mi era semplicemente venuto il panico per il compito.

Non so se fosse proprio per il compito, che mi veniva. Era anche per come mi sentivo durante il compito. Mi sentivo incapace. Mi sentivo pronta a fallire. Mi sentivo sola. E allora arrivavano le lacrime. E il problema, quando arrivano, è che poi è difficile farle smettere, come dico qui.

Anche ieri è accaduta una cosa simile.

Ad un certo punto il panico è arrivato.

Bisognava fare l’accesso su una piattaforma che avevo usato altre volte, ma sempre dal pc di A. Dal mio non capivo come fare. Si trattava semplicemente di aprire un sito. Se non fosse arrivato il panico, sarei potuta arrivare a capire come si faceva.

Avrei potuto dire che mi facevo un attimo aiutare, alzarmi e chiedere ad A.

Invece il panico è arrivato come una sorta di blackout nella testa che non mi faceva più pensare bene.

Mentre spiegavo agli altri collegati su google meet che avevo un problema, sentivo la mia voce trasformata, la mia voce di quando sto per piangere, la mia voce che sembra tradirmi.

Ho visto un tipo, in un’altra icona della video chiamata, che si è messo a ridere mentre parlavo. Allora ho avuto paura di usare ancora la mia voce per chiedere se potevo farmi aiutare, perché la mia voce mi stava tradendo, non era più una voce neutra e giusta, era una voce che rivelava qualcosa che non volevo rivelare a tante icone mai viste su google meet.

E allora non ho chiesto nulla e mi sono fatta schiacciare.

Forse dal mio panico, forse da quell’icona che rideva. Forse dal mio “preoccuparmi troppo delle apparenze” come dice A. Non so se sono le apparenze, a preoccuparmi. Sono le cose che gli altri possono pensare di me. Anche se sono altri mai visti e che non vedrò mai più. Le loro impressioni su di me (che, chiaramente, immagino io, perché ignoro quali siano) sembrano scivolare dentro alla mia pelle e graffiarmi. Non so perché il tipo che rideva mentre io stavo per piangere mi abbia fatto bloccare. So soltanto che mi sono bloccata e volevo solo scappare.  

Ho ripensato a quando da piccola scappavo e non volevo arrivare più. Quando arrivavo dovevo pensare a cosa sarebbe accaduto, se continuavo a scappare invece no. Potevo essere solo una persona che scappa.

Quando mi fermo, invece, devo ascoltare la rabbia della mia testa.

La mia voce che ripete che non vado bene. La mia voce nella testa che dice che ho fallito.

Quando, in un film, un personaggio fa qualche errore, a me quel personaggio sta molto simpatico. Credo stia simpatico a tutti. Mi dico: “Vedi, lo hanno scritto apposta così, che fa degli errori, per rendercelo più simpatico.”

Solo che, quando sono io a fare un errore, non mi sto tanto simpatica. Cerco un po’ di provare quel distacco di quando guardo un film, ma credo sia un po’ complicato provare distacco verso sé stessi.

Il problema dei fallimenti è che sembrano romantici solo se sono degli altri.

Io non mi sento cresciuta, dopo un fallimento, mi sento spiaccicata dentro ad una scatoletta. E anche la risalita dal fallimento non mi sembra poetica e coraggiosa, mi sembra solo molto faticosa.

Ho ripensato spesso al tipo che rideva. Ho pensato a quando io rido se gli altri fanno le figuracce. A come rido con troppa facilità quando gli altri fanno delle figuracce.

Ad un certo punto la professoressa mi ha scritto una mail: “Può recuperare l’esame domani”. Io mi sono sentita sollevata e anche profondamente stupida.

Ho detto al panico: la prossima volta prendiamoci una pausa di riflessione prima, qualche ora in cui aspettiamo di disperarci. E poi, se non c’è soluzione, ci disperiamo. Mi sembra un programma con una logica schiacciante ma con scarsissime possibilità di attuazione.

Ho rifatto l’esame. Mi è parso incomprensibile.

Ho atteso il panico. Non è arrivato.

L’ho atteso ancora, paziente.

Di nuovo, non si è fatto vedere.

Ho capito che doveva essersi esaurito il giorno prima. Ho guardato le domande. Ho scritto qualcosa. Ho pensato che non era abbastanza. Ho osservato l’assenza di panico. Ho finito l’esame, delusa delle risposte sbagliate e soddisfatta di come le avevo gestite.

 

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