Io e le scelte, vol. 1
Che noi oggi possiamo fare veramente tutto è forse un po’ scontato da dire.
E, di per sé, questa cosa sarebbe molto bella. Se non fosse che io non so scegliere.
O meglio, a scegliere, vado proprio
nel panico. Ogni volta che devo scegliere, vado nel panico. Per qualunque
scelta.
Il tanto per me è decisamente troppo.
Per esempio. Posso essere a Pechino in dieci ore. Dieci ore e trentanove
minuti, secondo google. Sempre ammesso che io voglia andare proprio a
Pechino.
Perché in dieci ore potrei anche essere a Mumbai (9 ore e 55),
Chicago (10 ore e 45) o Toronto (9 ore e 40), per dire. Se poi si scende a 9
ore ci sono tanti altri posti, tipo Boston o New York. Salendo a 13, abbiamo
Lima e Los Angeles, per dirne due a caso.
Quale scegliere? Panico.
In questo caso, il mondo è benevolo e si esprime
attraverso il mio portafogli, che mi soccorre dicendomi: tu a
Pechino non ci vai, e nemmeno a Mumbai, Chicago, Toronto, Lima o New York.
Ma in altri casi non è così semplice.
Il mondo è pieno di scelte insidiose, tutte pronte a diventare amiche del
panico. Alcune sono nascoste, altre un po’ meno.
Da piccola, i supermercati mi piacevano tanto. Mia madre mi diceva cosa
prendere dagli scaffali e io, beata, lo lanciavo dentro al carrello, che si
riempiva sempre di più, minacciando di sommergere mia sorella, appollaiata sul
seggiolino.
Quando ho iniziato ad andarci da sola, invece, il supermercato è diventato
un vero incubo. Un buco nero. Vagavo per ore e ore tra le corsie, sperduta, arrivando
alla cassa distrutta, sapendo che le cose che avevo preso erano
sicuramente quelle sbagliate.
Poi però in questo caso è successa una cosa. Si è acceso un faro.
No, non ho imparato a scegliere. O
almeno credo.
A me stava antipatico il supermercato perché c’era di tutto e io non sapevo
scegliere. Adesso c’è ancora di tutto, e io ancora non so scegliere. Però
ho un sistema.
Il sistema consiste nel ridurre il più possibile le opzioni. Se riduco le scelte
che ho, il mio panico si annoia e mi lascia stare.
Cibi che non assomigliano a cibi, cibi che prima erano un qualche animale
vivo, cibi in stagioni non appropriate? Non contemplabili. Imballaggi in
plastica? Il male.
Per esempio, se in questa stagione si producono solo rape, allora io mangio le rape. Non perdo tempo a fare la spesa: rape, insalata, cetrioli, pomodori, zucchine o melanzane (peperoni no, a priori. Non mi piacciono)? Rape. È semplice. Le rape sono avvolte nella plastica? Allora non si possono comprare. Non prendo nulla.
E faccio la fame.
Adesso, quando entro in un supermercato, il mio cervello vede solo la
plastica. Non vede neanche le cose dentro alla plastica, ma solo il fatto che
sono avvolte nella plastica.
Tutto è imballato. Tutto.
Beh, quasi.
Quando andiamo insieme al supermercato, A e io passiamo il tempo a vagare
da una corsia all’altra, con un po’ di soggezione. A volte abbiamo uno scatto, uno slancio improvviso:
"vetro!", e afferriamo qualcosa compulsivamente. "Piano!",
che il vetro si rompe. A volte, più raramente: "cartone senza
plastica!", oppure "busta compostabile!".
Per il resto del tempo guardiamo con un certo orgoglio il carrello che non
si riempie di plastica. E così, alla fine, quando ci sembra abbastanza vuoto,
andiamo alla cassa.
Mentre sono alla cassa e guardo i cibi sopravvissuti alla selezione che
scorrono sul nastro, la mia mente inizia ad avvantaggiarsi per il momento dopo.
Cosa si mangia per cena? Cosa si mangia domani a pranzo? E a merenda? Quando
dovrei cucinare? Cosa posso fare appena arrivata a casa? Cosa devo fare? Chi devo
chiamare? Chi devo non chiamare?
Bisognerebbe trovare altri sistemi per ridurre le scelte, in ogni ambito. Perché
così, invece di scegliere tra tante opzioni ugualmente giuste, mi limiterei a
schivare tutte le opzioni sbagliate. Vorrei tanti bei
limiti anche per tutte le altre scelte, quelle che non sono così semplici, così
evidentemente sbagliate.
Secondo me i limiti sono sottovalutati.
Voglio tanti bei divieti che mi dicano: questo no, non lo puoi fare.
Non credo che il mondo sia d’accordo con me.
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