Il panico e i rifiuti
Ogni volta che butto qualcosa nel cestino sento una sorta di scarica fastidiosa in tutto il corpo e una vocina che mi annuncia: “Sono tornato.” È il panico dei rifiuti, il panico che arriva appena vede che produco qualche rifiuto. Il panico dei rifiuti mi fa sentire sporca. Mi fa sentire in colpa. Il panico dei rifiuti mi fa sentire come se stessi sporcando un po’ anche me quando butto qualcosa.
Il panico dei rifiuti a volte mi blocca e non vuole farmi fare le cose, perché produrrebbero rifiuti.
Il panico dei rifiuti ha avuto molto da fare prima del matrimonio. Anche perché ho sempre considerato i matrimoni l’emblema della produzione di rifiuti, soprattutto da quando, ad un matrimonio, anni fa, dopo aver detto di no all’ennesimo antipasto in modo da non buttarlo, mi ero sentita rispondere: “Ma tanto noi lo buttiamo via lo stesso, anche se lo riportiamo indietro.”
Allora avevo giurato che non mi sarei mai sposata. O che non avrei fatto mai un ricevimento di matrimonio.
O che, se l’avessi fatto, avrei imposto a tutti di non produrre rifiuti o, almeno, di produrne una minima quantità.
Ed è quello che io, A e il mio panico abbiamo fatto.
Riguardo al cibo, abbiamo vietato a tutti di comprare materie prime in plastica, facendoci invece arrivare sacchi di carta da 5 o 10 chili di qualunque cosa: dai ceci al miglio, dalle fave ai lupini, passando per farine varie. Per non parlare del sacco di 5 chili di riso soffiato, che, messo in piedi, arrivava fino alla vita di A. Ora abbiamo una cassapanca piena di sacchi di carta uguali e c’è sempre la caccia al tesoro da fare quando si deve cucinare.
Poi abbiamo vietato a tutti di congelare, servire, conservare in cose usa e getta. Erano accettati solo barattoli e contenitori riutilizzabili.
Abbiamo comprato bottiglie su bottiglie di vetro di una specie di Amuchina al Negozio Leggero, facendo poi pericolosi travasi da bottiglie grandi a bottiglie piccole.
La nonna e la mamma di A hanno preparato nastrini di cotone di colori diversi da mettere intorno ai bicchieri di vetro. Lo hanno fatto loro perché io ho il panico dei rifiuti e so come non produrli, ma poi non ho le competenze pratiche per portare a termine le mie idee.
Il momento più divertente è stato quando A e io siamo andati a prendere i confetti a Sulmona. Ci siamo presentati con i nostri sacchettini di stoffa per prendere i confetti sfusi. È stato complicato, perché le commesse continuavano a volerli mettere prima nelle bustine di plastica e poi in quelle di stoffa, mentre A continuava a ripetere “ma il punto è che non vogliamo usare la plastica”. Io invece stavo zitta e lasciavo parlare lui, perché il mio panico del parlare con i commessi dei negozi purtroppo a volte non va d’accordo con il panico dei rifiuti.
Il giorno dopo il matrimonio abbiamo guardato nel cestino i rifiuti indifferenziati che avevamo prodotto: erano quasi inesistenti.
Il panico dei rifiuti è stato felice. Il panico dei rifiuti è un panico che arriva di frequente, ma è abbastanza facile farlo passare. Basta non produrre rifiuti.
A volte non è facile perché comporta avere scelte limitate. Ma per me, che ho il panico delle scelte, questo può essere, in realtà, un elemento favorevole.
Per capire come il panico dei rifiuti si inserisca nelle scelte quotidiane farò un esempio pratico trattando un tema tipico dell’estate: il gelato. Io e A mangiamo tantissimi gelati. A prendeva sempre la coppetta e anche io a volte la prendevo, quando avevo poca fame, anche se la coppetta secondo me è proprio un gelato tristissimo. Solo che poi ho realizzato che la coppetta e il cucchiaino erano un rifiuto e quindi ho iniziato a prendere sempre il cono. Ho anche iniziato a non voler assaggiare nessun nuovo gusto di gelato, perché poi mi davano il cucchiaino di plastica. Oppure, ho realizzato che non potevo mai prendere la granita, perché il bicchiere era in plastica. E che non potevo prendere il gelato a portare via per lo stesso motivo.
Non c’è da stupirsi molto se in effetti mi viene sempre il panico.
Però c’è anche un risvolto positivo e amico del panico in questo tentativo di non produrre rifiuti. Non è solo il fatto di non produrre rifiuti a placare il panico, ma anche il processo per arrivarci. Per arrivare a non produrre rifiuti si deve andare piano. Si devono trattare bene le cose. Ci si deve fermare. E fermarsi, per il panico, è la cosa più difficile che ci sia. Il mio panico che va troppo veloce e non riesce a fermarsi deve invece lavare le salviettine per il viso. Deve lavare gli assorbenti di cotone, lavare la coppetta. Deve lavare i barattoli, lavare i tovaglioli di stoffa. E mentre lava piano piano il panico dei rifiuti si calma, perché vede che qualcosa viene lavato e non buttato. E, intanto, si calmano anche gli altri tipi di panico presenti in quel momento perché, invece di fare mille cose insieme e chiedersi perché non ne venga bene nessuna, possono stare fermi, lavare, sciacquare e poi guardare asciugare.
Poi a volte mi viene il panico per non averle lavate bene, ma quella è un’altra storia.
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