Le personalità del sabato sera




I sabati sera sono una cosa strana. 

O forse no, sono fin troppo semplici. 

I sabati sera si dovrebbero chiamare sabato sera, non sabati, credo, però in effetti le domeniche si dice le domeniche e non le domenica e quindi magari anche i sabati si può scrivere, non solo i sabato. Mi viene da scriverli al plurale perché me li immagino che si ripetono. Ogni settimana arrivano puntuali. 

Come del resto tutti gli altri giorni della settimana.

Ma i sabati si portano appresso tante cose. Si portano appresso un nome che li precede, un’aspettativa molto più grande di loro.

I sabati sera arrivano preceduti dai venerdì. Inizi a tendere le orecchie, a darti da fare. Quando ero al liceo era così che succedeva. Per tutti i primi due anni, al ginnasio, il sabato non esisteva. Non esisteva in quanto sabato. Era un giorno normale. 

Ad un certo punto, però, verso il terzo anno di liceo, ho imposto al mio cervello di considerare il sabato come sabato. E ho iniziato a odiarlo. Ho iniziato a odiarlo perché aveva un’etichetta. E l’etichetta diceva “è sabato, divertiti”. E quando ti vuoi divertire non ti diverti mai, si sa, ti diverti solo quando esci per caso e vestita male e con uno zaino troppo grande, che a metà serata vorresti buttare via.

Il sabato iniziava dall’ora di pranzo, dal mio cercare di capire quali erano le opzioni che si dispiegavano davanti a me. Oscillavo tra l’essere semicostretta dalla mia amica Irene ad andare da qualche parte al manifestare improvvisamente svariati sintomi di influenza che mi costringevano, purtroppo assolutamente al di là della mia volontà, a rimanere a casa. 

Il sabato pomeriggio era caratterizzato da lunghe chiamate a mia cugina grande alla quale illustravo le mie opzioni per la serata correlate dai miei dubbi, e alla fine della chiamata la portavo sempre a dirmi: “Ma no, puoi anche non uscire. Se non esci questo sabato non accadrà nulla. Se non esci questo sabato ce ne sarà sempre un altro, tra solo una settimana”. 

Ed è questa cosa della regolarità del sabato che ti frega. Perché pensi: “Ce ne saranno altri, questo lo salto. Questo sabato sto a casa.”

A volte però decidevo di uscire. A volte Irene era molto convincente (io mi impegnavo a dire di no parecchie volte. Forse lo facevo solo per testare la sua tenacia. Forse lo facevo perché la parte che un po’ si salvava dei sabati sera era Irene che mi diceva: “Puoi venire a vestirti da me così ti dico io che mettere” e poi concludeva: “Andiamo insieme in motorino, tanto anche io voglio fare presto”. Ed erano le cose per me più rassicuranti del mondo). 

A volte quindi mi forzavo. Mi coprivo e uscivo. Non mi divertivo ma c’erano momenti passabili. A volte anche momenti quasi divertenti. O momenti che potevano essere usciti da un film. In quei momenti io mi dicevo: “Ecco, è sabato sera, io sono qui, fuori, a divertirmi, con tutti che si divertono, non a casa da sola. Sono dove io, che sono giovane, devo essere, va tutto bene, è tutto come deve essere, posso tirare il fiato.” E in genere questo momento bastava per farmi andare bene l’intera serata.

A volte, in mancanza d’altro, decidevo di innamorarmi di qualche mio compagno di classe, visto in una luce un po’ diversa dal solito e magari con addosso una felpa appena un po’ più carina di quella indossata a scuola. E allora questo dava un senso alla mia serata. 

Ma il momento in assoluto più bello dei sabati sera era quando finivano. 

Era quando risalivo le scale di casa e mi dicevo: “Sto tornando a casa da un sabato sera. Sono sopravvissuta. È abbastanza tardi. Ho fatto la cosa giusta. Adesso per un paio di sabati posso anche non uscire.”

Era talmente bello aver superato il sabato, che questa sola cosa trasformava anche il giorno dopo, ovvero la domenica, con la sua pressione di dover essere per forza un giorno bello, in quanto domenica. 

La cosa bella che avevano i sabati sera quando mi forzavo ad uscire era che, quando finivano, lasciavano un senso di pienezza dentro, di aver fatto la cosa giusta, un senso di pienezza che mi accompagnava per tutta la domenica e che la faceva diventare non più la domenica, ma solo il giorno dopo il sabato sera.

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