Scioperi e dissonanze


Non mi sono rimaste impresse molte cose dai pochi esami di psicologia che ho fatto, ma c’è un concetto a cui penso spesso, ed è quello della dissonanza cognitiva.

Forse è qualcosa di molto conosciuto a tutti, ma io lo ignoravo. O, almeno, non ci avevo mai fatto davvero caso.

Da quello che ricordo io, la dissonanza cognitiva si crea quando una nostra azione entra in conflitto con una nostra credenza. Per rimediare, allora, cerchiamo di cambiare la nostra credenza, così da giustificare la nostra azione. È tendenzialmente più facile cambiare quello che si pensa che cambiare quello che si fa, soprattutto se, magari, quello che si fa lo si è già fatto e si deve trovare una giustificazione a posteriori.

Penso che mi sia rimasto impresso perché lo faccio spesso. Forse non molto spesso, ma un numero considerevole di volte. Più che farlo, più che altro, mi accorgo che il mio cervello inizia a raccontarsi qualcosa di diverso da quello che reputa giusto solo per non sentirsi in colpa.

Spesso, in passato, ho usato questo sistema per non fare le cose. Ogni tipo di cosa, direi, perché la verità è che a me fa fatica fare le cose. A volte mi capita di parlare con persone che vanno in tanti posti, vanno ai concerti e ai festival di cinema indipendente e alle mostre fotografiche e organizzano lunghe gite o viaggi bellissimi; io le ammiro e un po’ le vorrei imitare, ma un po’ vorrei restare a casa a leggere e basta.

Quindi, tante volte, mi sono raccontata che tutte le cose che avrei potuto fare erano brutte e che, quindi, potevo anche non farle.

Perché andare a vedere un film che è in un cinema scomodo e lontano, anche se a me piace il cinema e mi piace quel regista lì, se in fondo “il cinema non mi piace più così tanto, meglio non fare troppe cose, meglio concentrarsi su altro. E poi il film potrebbe sempre non piacermi, sto risparmiando tempo e soldi”; perché mettermi a scrivere se sono stanca, anche se mi sono data l’impegno di scrivere sempre, “tanto lo so benissimo, quando sono stanca non mi riesce bene, quindi farlo non solo è inutile, ma è anche dannoso, meglio così”; perché comprare una cosa che reputo dannosa per il clima, se tanto “mica lo è veramente, leggo l’etichetta che mi assicura che è sostenibile e lo sarà di sicuro, io ci credo”.

Ci sono molte altre giustificazioni simili a quest’ultima, che di fatto si traducono nello smettere di fare tutte le cose di attivismo per il clima che faccio e dirsi che “è meglio riposarmi, le cose si sistemeranno in qualche modo e, in fondo, tutte le affermazioni che leggo da parte di aziende, stati, banche ecc sul loro impegno per il clima saranno di certo vere”.

Ovvero, creare un’unica grande giustificazione per placare la mia ansia climatica, una grande giustificazione a ombrello, che copre un po’ tutto e mi fa vivere felice e contenta nella menzogna.

Per fortuna, non sono capace di creare una tale giustificazione.

E quindi mi tocca fare le cose.

Mi tocca fare le cose come andare in piazza oggi a scioperare, andarci per ben due volte, una in macchina per portare del materiale da scaricare e una seconda in bici, dopo aver lasciato la macchina a casa.

Prendere volantini e cibo, fare cartelloni che non sono brava a fare, informarmi su cose che mi interessano ma che trovo difficili da capire.

Fare cose, di fatto, a me che le cose non piace farle. Certo, le mie azioni restano in linea con le mie credenze, però è anche faticoso.

Anche se, a farmi fatica, in realtà, è confrontarmi con le dissonanze cognitive delle altre persone, che spesso mi sembrano funzionare meglio della mia. Forse le rassicurano per bene, non so. Fatto sta che non le fanno agire come mi piacerebbe, e allora ci rimango male, perché per un attimo mi sembra tutto inutile, mentre cammino e sposto cose e mi sporco le mani e mi stanco.

Dura un attimo, poi mi ricordo che sto agendo senza dissonanza cognitiva, sto agendo in linea con quello che ritengo giusto, e questo dà un senso alle cose.

E poi accadono momenti straordinari e al limite della realtà come quando una giornalista mi si avvicina e, prima di intervistarmi, mi chiede: “Tu sei maggiorenne?”.

 

Foto di Daniele Levis Pelusi su Unsplash

 


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