Partenza e pianto - pianto e partenza

 


Ci sono dei ricordi che si legano indissolubilmente a dei posti, ci sono punti precisi a cui sono legate delle immagini precise. Tutti i diversi punti dell’aeroporto di Ciampino sono legati al pianto.

Proprio tutti, alcuni meno e altri di più, a cominciare dal parcheggio che a volte fa pagare anche quando si è dentro l’orario della sosta gratuita. Ma il parcheggio è un luogo che fa piangere solo quando ci si arriva per partire, ovviamente. Quando si ritorna è lo stesso parcheggio, ma in realtà è un posto diverso, perché non fa piangere.

Dentro l’aeroporto, invece, è tutto diverso, perché i luoghi che si attraversano per partire sono diversi da quelli attraversati per arrivare. I primi sono tenuti bene, hanno un bar e una farmacia, ma sono bruttissimi. I secondi sono orrendi, sono dei corridoi con la luce fredda e dei gabbiotti per il controllo passaporti in cui si fa la fila pure se si è in pochi, ma sono meravigliosi.

Quando abitavo a Londra ero un’assidua frequentatrice di Ciampino e ogni volta ripercorrevo la mia personale mappa del pianto.

La prima tappa era il tristissimo percorso a zig-zag per arrivare al controllo bagagli. Era il momento in cui salutavo chi mi aveva accompagnato e, anche se fino a un istante prima avevo pensato: “Ma guarda, mi sono abituata e non mi dà più fastidio la partenza”, appena arrivata lì scoprivo che non era vero. Mi ritrovavo sola in quel triste zig-zag e sapevo che non potevo più tornare indietro. E poi c’era l’ancora più triste controllo bagagli, dove mi toccava svuotare il mio zaino pieno di cose e poi riempirlo di nuovo sulla panca rotonda appena più avanti. E mentre riassemblavo il mio bagaglio piangevo per ogni oggetto che rimettevo dentro, perché mi ricordava chi me l’aveva dato. Era una sorta di piccolo appuntamento con la nostalgia.

Poi c’era il pianto nel pullmino verso l’aereo, che però era più che altro un pianto silenzioso, spesso interrotto da qualche anima pia che decideva di chiamarmi in quel momento per augurarmi buon viaggio e mi faceva distrarre. E poi arrivava l’aereo. In genere lì piangevo internamente, per rispetto verso i miei vicini, tranne la volta in cui avevo deciso che il mio vicino doveva di sicuro essere un terrorista intenzionato a dirottare l’aereo ed ero entrata nel panico, mentre il sospettato sabotatore chiamava la hostess per farmi aiutare e mi porgeva fazzolettini.

Poi atterravo e iniziava una nuova mappa del pianto, resa più difficile ma allo stesso tempo più accettabile dal fatto che mi trovavo davvero in un luogo che non era casa mia e che, per quanto fosse conosciuto, mi era sempre un po’ alieno. Anche a Stansted avevo i miei appuntamenti con il pianto, a cominciare dagli infiniti corridoi e scale mobili. Poi uscivo all’aria aperta e l’aria era diversa, fredda e strana.

Compravo i biglietti per l’autobus e prendevo sempre sia l’andata che il ritorno, mi dicevo che il motivo era “perché comprandoli insieme costano meno”, ma la realtà era che volevo ricordare a me stessa che, dopo qualche settimana, sarei tornata a Roma per qualche giorno, e ci tenevo che anche l’impiegata della biglietteria lo sapesse, così nella sua testa avrebbe potuto formarsi l’idea di una persona che era venuta lì giusto per un po’, non di una persona venuta lì per un tempo indefinito, come se fosse casa sua.

Quando salivo sul pullman, il pianto mi avvolgeva. Era un pianto lento e raccolto, spesso nel buio della sera che scorreva dai finestrini, mentre ero illuminata solo dalla luce del mio telefono, sul quale, in quei momenti, scrivevo furiosamente, come per cacciare via il buio e il peso nel petto. Scrivevo a tutte le persone a cui era possibile scrivere e aspettavo con ansia ogni risposta. Quando mi chiedevano se ero tornata a Londra, io ci tenevo subito a comunicare la mia data di ritorno. E volevo molto bene a chi rispondeva: “Ah, ma è tra poco!”.

A poco a poco, il pianto passava. In genere ricominciavo ad abituarmi quando arrivavo a casa con lo zaino pesante e la mia coinquilina mi raccontava cosa era accaduto durante la mia assenza. Facevo la spesa, una delle mie cose preferite quando ero a Londra, e ritrovavo la vista di spicchio di cielo grigio della finestra della mia stanza.

Il problema era proprio questo partire.

Dopo un anno di tutte queste tragedie sono appena migliorata, ma non rispetto al pianto.

Sono migliorata rispetto alla mia capacità di sopportarlo e di non preoccuparmi quando arriva.

 

Photo by Caroline Selfors on Unsplash

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