Il televisore e mia madre

 


Un giorno di tanti anni fa, prima che io nascessi, mio padre è tornato a casa e ha trovato mia madre che piangeva in salotto.

Si erano da poco trasferiti nella casa in cui abitano ancora adesso e avevano appena comprato un televisore.

Mia madre era seduta davanti al nuovo acquisto e piangeva. Non per qualcosa di molto triste che stava vedendo, perché la televisione era spenta. Mia madre piangeva perché il televisore era troppo grande. Era brutto, ingombrante e rovinava il salotto con la sua sola presenza.

Mio padre è stato costretto a chiamare un amico che, come lui, aveva appena comprato un televisore, ma più piccolo del suo, per chiedergli di fare a cambio. L’amico era stato ben felice e il suo piccolo televisore grigio per anni ha troneggiato nel nostro salotto fino a quando, un po’ di anni fa, mio padre e mia sorella hanno costretto mia madre a cambiarlo.

Lei, che ha passato un’infanzia senza televisione, cosa della quale va molto fiera, ha sempre provato un’avversione totale per questo strumento. Per mia madre, il televisore è sempre stato il demonio.

Non so bene come abbia comunicato a me e mia sorella questo concetto fondamentale della nostra vita quotidiana, ma so che era ben chiaro nella mia testa fin da piccola.

La televisione ci avrebbe fatto molto male.

Guardarla da troppo vicino mi avrebbe rovinato gli occhi e io ne ero spaventatissima. Anche se capivo che non sarei diventata cieca avvicinandomi allo schermo per qualche secondo, ero sicura di andarci molto vicina. Se ne avessi vista troppa in un giorno avrei potuto sviluppare dei seri problemi alla vista.

Ma non c’era solo questo elemento concreto degli occhi, c’era qualcosa che andava più in profondità, una sorta di terrore ancestrale per quello strumento e quello che avrebbe potuto far fuoriuscire dal suo interno.

Era necessaria la massima cautela nel rivolgersi al televisore. Vedevamo pochi cartoni animati quando tornavamo da scuola e, in misura eccezionale, un pezzetto di una videocassetta il sabato e la domenica mattina, mentre facevamo colazione. A questo si aggiungeva qualche rarissima sera in cui ci veniva permesso di mangiare davanti alla televisione vedendo il pezzetto di un film.

Vedevamo sempre e solo dei pezzetti, perché un intero film sarebbe stato troppo. A me neanche veniva in mente di farlo, in realtà, mi sembrava ovvio che si dovessero vedere solo dei pezzetti. Era un po’ come quando uno dei nonni ci regalava un ovetto Kinder e noi potevamo assaggiarne soltanto un pezzettino. Solo da adulta ho scoperto che le altre persone lo mangiavano tutto intero. Noi, invece, riponevamo il resto in una scatoletta dal coperchio bianco che tenevamo in frigorifero, piena di frammenti di cioccolata.

Non era sempre facile scegliere il pezzetto di film da vedere, ma non ricordo troppi litigi tra me e mia sorella per questo motivo. Avevamo una lista abbastanza limitata tra cui scegliere perché, per mia madre, i film non adatti avrebbero potuto impressionarci troppo e farci venire gli incubi. Non c’era limite al potere nocivo dello schermo. Eravamo conoscitrici esperte delle videocassette che avevamo e io spesso calcolavo le scene che saremmo riuscite a vedere nel tempo che ci era concesso per capire se saremmo riuscite ad arrivare a una di quelle che preferivo.

I film interi li vedevamo al cinema e, solo in occasioni molto speciali, a casa, per esempio a Capodanno o durante le vacanze di Natale. Per il resto, c’erano i pezzi. Questa pratica è continuata alla scuola media, quando mio padre ha iniziato a spedirmi a letto alle dieci in punto. Io, imperterrita, a volte mi mettevo a vedere un film in prima serata e lui puntualmente mi mandava a letto senza che avessi visto il resto della storia, che mi facevo raccontare in classe il giorno dopo.

A casa degli altri, infatti, si vedeva molta più televisione. Non c’erano i pezzetti, ma film interi, anzi, c’era addirittura l’usanza di vedere un film intero dopo l’altro, a volte mandati a ripetizione mentre si giocava, perché alcuni miei compagni di classe avevano addirittura la televisione in camera. Ma io, che non ero abituata, mi distraevo di continuo e non riuscivo a giocare. A me sembrava così strana quella televisione perennemente accesa.

Era strano questo rapporto così disinvolto con quello strumento del demonio.

A un certo punto, all’inizio del liceo, ho sviluppato un grande amore per i film. Vedevo soprattutto vecchi o vecchissimi film, molto spesso in bianco e nero, li affittavo o li ripescavo dentro casa. A quindici anni ho ottenuto un piccolo televisore grigio per la mia camera, con tanto di videoregistratore, che ho imparato a programmare per registrare i film che andavano in onda a orari improbabili, e che erano i migliori.

Ma questo amore per i film non era in contraddizione con l’odio per il televisore e con la ferma convinzione che fosse uno strumento del demonio, anzi, forse veniva proprio da lì: essere stata digiuna di immagini brutte e ovvie mi aveva portato a vedere film degli anni Trenta.

Ancora adesso, se a casa di qualcuno mi capita di scorgere un’immagine enorme e rifinita su uno schermo gigante, la trovo finta e brutta, non abbastanza sgranata.

E, subito dopo, penso che quello schermo gigante mi farà male agli occhi.

 

 Photo by Nabil Saleh on Unsplash

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