Le fasi del panico
A volte non mi viene l’ansia per delle cose che, secondo me,
dovrebbero farmela venire. Allora io me la faccio venire lo stesso.
Forse è per abitudine, per una sorta di inerzia che mi
spinge dentro l’ansia. Mi sembra così semplice, un mondo senza ansia, troppo
facile e tranquillo; da qualche parte deve esserci una fregatura. E quindi io
mi faccio venire l’ansia e tutto torna al suo posto.
Solo che non è proprio così.
Prima che tutto torni al suo posto, tutto va prima molto
male. Avviene in diverse fasi.
Per prima cosa, io mi maledico. Mi maledico per la mia
ansia, così inaspettata, che mi ha colto impreparata. Mi maledico per averle
lasciato troppo spazio, invece di accoglierla con un’alzata di spalle. E,
soprattutto, mi maledico se la mia ansia ha travolto con sé altre persone, che hanno
dovuto prestarmi soccorso o che sono state interrotte in quello che stavano
facendo. Queste persone a volte guardano me e la mia ansia come se fossimo la
stessa cosa e io mi blocco. Vorrei dire che non è così, non è affatto vero, ma
non riesco a esserne poi così sicura.
Se la mia ansia coinvolge solo me, invece, risulta molto più
gestibile. Se urlo nell’abitacolo della macchina e nessuno ne è testimone, se
entro nel panico a casa da sola per qualcosa di stupidissimo, tutto sommato va
bene. Mi arrabbio lo stesso con me stessa, ma mi arrabbio per qualcosa che ho
fatto io e che è ricaduto su di me, punto. Non devo arrabbiarmi con me stessa per
qualcosa che ho fatto io e che è ricaduto su altre persone. In questo caso,
infatti, mi trovo anche a dover gestire il senso di colpa.
E io lo so che il senso di colpa è brutto e inutile, ma è
anche molto facile. E, a dir la verità, vorrei anche un po’ riabilitarlo,
questo senso di colpa. A me sembra che sia diventata una parola impronunciabile,
qualcosa di cui vergognarsi. Ogni volta in cui dico timidamente: “Poi mi sento
in colpa” si alza una marea di “No!”, “Ma no, il senso di colpa!”; “Non
serve!!”, “Il senso di colpa è bandito!” Solo che a me queste esclamazioni paiono
un po’ controproducenti, come quando si urla “Calmati!” a una persona agitata.
Queste affermazioni sul senso di colpa mi fanno sentire in colpa per avere il
senso di colpa.
La seconda tappa, dopo le maledizioni, è il perdono, ma io
non sono tanto brava a perdonarmi. Perdonare gli altri è di gran lunga più
facile, perché ha solo vantaggi. Per prima cosa, mi sento buona e brava. Loro
hanno sbagliato ma io li perdono, sono generosa. E poi, magari, loro mi
ringraziano pure. Inoltre, se non li perdono, ho paura che loro si arrabbino
con me per non averlo fatto. E poi, questi altri che perdono non mi sembrano
delle persone brutte. Mi sembrano carine e intelligenti e, tutto sommato, il
loro sbagliare li rende quasi più simpatici, più interessanti.
Quando devo perdonare me, invece, non vedo le mie qualità,
ma solo lo sbaglio. Oppure, se le vedo, mi chiedo: e perché se ho tutte queste
qualità ho fatto questo sbaglio? Mi guardo allo specchio e vedo un’espressione
normale, e allora mi metto a esaminarmi per trovare tracce dei miei sbagli
sulla mia faccia. Non le trovo mai, e mi urto soltanto.
Mentre provo a perdonarmi, una voce dentro di me mi fa
notare che sto scegliendo una via di fuga fin troppo facile. “Non solo hai
fatto qualcosa di sbagliato, ma adesso ti perdoni pure? Così, subito, su due
piedi, ti perdoni e sei anche contenta di perdonarti? Ma non va bene.” Secondo
questa voce, al contrario, io dovrei espiare i miei sbagli in una sorta di
Purgatorio personale modellato sulla Commedia di Dante.
Quindi sembrerebbe non esserci scampo. Se non mi perdono,
come faccio ad andare avanti?
La soluzione però c’è e riguarda le apparenze.
Mi ricompongo.
A un certo punto risulta necessario riprendere le fila di
quello che stavo facendo. Uscire dalla macchina, riprendere a scrivere, a
studiare, a mangiare, andare a una lezione. Posso stare male, ma non lo posso
far vedere. Se sono da sola, questa cosa non è semplicissima. Ma se sono con
gli altri, o devo fare qualcosa che li coinvolga, è diverso. Se si tratta di
sconosciuti, poi, io mi ricompongo subito. Posso essermi disperata fino a un
attimo prima, ma nel momento in cui incontro questo altro sconosciuto, tutto è
cancellato.
Se questo altro sconosciuto è anche piccolo, ancora meglio. Nel
momento in cui io inizio una lezione e mi ritrovo davanti un bambino o un
adolescente, il mio panico non esiste più. Non importa se vaga ancora da
qualche parte, se fino al momento prima mi prendeva tutta la testa, adesso non
c’è.
Il ricomporsi ha lo stesso effetto del perdono. Forse è più
semplice, certo, potrebbe sembrare una scorciatoia. Dagli sforzi titanici che
faccio per ricompormi, però, non ne sono così convinta.
Recuperato un aspetto normale, io vado in giro a fare delle
cose. Mi scordo dell’ansia. Il mio petto ci mette più tempo, e resta pesante
per un bel po’. Io lo ignoro. La mia testa mi fa male per il pianto. Io la
ignoro. Ignoro tutto e, a un certo punto, l’ansia diventa piccola.
E solo a quel punto tutto è a posto. L’ordine delle cose è
ristabilito.
Certo sarebbe più semplice se l’ordine delle cose non
dovesse passare per il panico.
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