Correre guardando l'orologio

 


Le mattine in cui vado a correre guardo l’orologio tantissime volte.

A volte arrivo anche a controllare che ora è quando mi sveglio durante la notte, per accertarmi che non sia già mattina. Un paio di giorni fa ho addirittura avuto un incubo in cui non sentivo la sveglia, guardavo l’orologio, scoprivo che era troppo tardi per andare a correre e mi disperavo. Poi, per fortuna, mi sono svegliata all’ora giusta. E ho iniziato a guardare l’orologio.

Che ore sono mentre mi preparo? E quando varco la porta di casa? A che ora finisco di slegare la bici?

Quest’ultima è un’operazione molto lunga perché, da un po’ più di un mese, la mia bici e quella di A. sono legate secondo uno schema complicato che utilizza quattro catene diverse. A Pasqua, infatti, le nostre biciclette precedenti sono state rubate. Siamo stati via due giorni e, quando siamo tornati, sotto casa non c’erano più.

A. e io stavamo discutendo in macchina e questo evento ci ha permesso di convertire la rabbia che avevamo l’uno contro l’altra in una rabbia contro i ladri. Nel mio caso, in una rabbia contro tutta la città. Una rabbia contro Roma, che è sporca, rumorosa e piena di automobilisti con cui litigo. Che è piena di smog e di buche per la strada. E che mi ruba anche le bici. Chiusa nella macchina, ho iniziato a urlare: “Mi fa schifo! Me ne voglio andare!! Vado via!” Ho urlato così forte che mi ha fatto male la gola. La cosa più bella, però, è stata che A., che odia quando alzo la voce, è rimasto muto ad ascoltare, atterrito dal furto, e ha anche annuito con convinzione.

Il giorno dopo abbiamo comprato altre due bici usate e quattro catene diverse e il mio rifiuto per Roma si è placato. Adesso, però, ci si mette molto più tempo per slegarle e, soprattutto, per legarle la sera.

La mattina eseguo ogni operazione con metodo e precisione e poi pedalo via. Non guardo l’orologio per tutto il tragitto ma, appena arrivata a villa Ada, trattengo il fiato prima di scoprire che ora è. Accendo il cellulare per ascoltare la musica e vedo i numeri che appaiono sul display. A quel punto, prima di partire, calcolo mentalmente a che ora finirò. Impiego sempre quarantacinque minuti per completare il mio giro, quindi è facile da prevedere. Controllo l’orario anche durante la corsa, in alcuni punti precisi. Quanto tempo impiego ad arrivare al laghetto piccolo? Quanto ad arrivare in cima alle scale? A che ora inizio l’ultima parte del giro?

Vedo se sono in tempo.

La domanda a cui non so dare una risposta, però, è per cosa dovrei essere in tempo. Cosa accade se faccio più tardi? È una domanda difficile.

Tranne rarissimi casi, infatti, io non ho impegni la mattina presto. Ma mi ostino a controllare l’ora e a darmi addosso se, per qualche motivo, sono arrivata più tardi del giorno prima. Mi dico che farà più caldo e ci saranno più persone. Entrambe le cose sono vere, ma non del tutto. Il caldo non cambierà così tanto per venti minuti di ritardo, così come il numero di persone. No, quella che faccio controllando l’ora è una lotta con me stessa.

Per un po’, la mia ossessione sugli orari è stata accompagnata dall’osservazione degli altri abituali frequentatori mattutini di villa Ada. In base al punto del giro in cui li incontravo, riuscivo a capire se ero in ritardo rispetto al solito o se lo erano loro. (In questo caso li guardavo con gentilezza e comprensione, molto diversamente da come avrei trattato me nella stessa situazione).

Adesso, con il caldo e il sole, ho deciso di anticipare il mio orario e alcuni di loro non li incontro più.

I frequentatori di villa Ada delle sei del mattino sono padroni di cani o altri corridori. A questi ultimi dedico poca attenzione perché, salvo rari casi, non li riconosco. Sono quasi tutti uomini di mezza età in pantaloncini, e a me sembrano tutti uguali. Per qualche giorno, il mese scorso, nel loro panorama si è stagliato un signore sovrappeso che correva con il giubbotto e la sciarpetta di lana. Prevedibilmente, non si è più visto. Per un periodo ho incontrato una signora bassissima e magrissima, che correva con uno zainetto e che incrociavo sempre nello stesso punto. Lei mi stava simpatica, perché mi dava l’idea di essere attenta all’orario come me.

In genere dedico più attenzione ai padroni di cani. Anche loro sono poco riconoscibili, ma i loro cani lo sono di più. C’è un alano enorme e grigio, e io ogni volta sorrido al padrone per sottolineare che non mi fa paura. C’è un golden retriever che ha una padrona con gli occhiali. Due piccoli cagnolini con due padroni che corrono insieme a loro, i quali, due settimane fa, mi hanno fermato per avvertirmi che un cinghiale enorme aveva appena portato via uno dei due cagnolini (poi ritrovato).  

Ma c’è un padrone di cani che riconosco subito e che è il mio preferito di tutti, e che, nella mia testa, io chiamo “Il Vecchio”. Non è molto originale come nome, ma mi sembra calzante. Desidererei moltissimo conoscere il suo vero nome, ma penso che romperebbe un po’ l’aura mitica che gli ho conferito. Il Vecchio è il padrone di una sorta di bassotta un po’ più alta e grassa dei bassotti, che rimane sempre indietro rispetto a lui.

Il Vecchio ha una lunga barba bianca, gli occhi accesi, una sigaretta in bocca, che nella mia testa è diventata una pipa. È magro e cammina un po’ curvo.

Sembra uscito dall’illustrazione di un libro sui marinai. Anche i suoi jeans e la sua giacca a vento a me sembrano la divisa di un marinaio.

Per tanti mesi l’ho incontrato tutti i giorni. Lo trovavo sempre allo stesso punto e, quando ho iniziato ad andare prima, l’ho incontrato in dei punti diversi. Anche lui fa sempre lo stesso giro con la bassotta. Per settimane mi sono chiesta se salutarlo o meno, perché mi pareva brutto, dopo tutto questo tempo, non farlo. Ma mi vergognavo e quindi optavo per una soluzione di mezzo, ovvero una sorta di sorriso accennato che poteva essere un saluto ma anche un riflesso della corsa.

Poi, qualche settimana fa, complice il mio cambio di orario, è successa una cosa bellissima: l’ho incontrato alla base delle scalette che fanno parte del mio giro. Lui stava scendendo gli ultimi scalini, io stavo per salire. L’ho fatto passare e, così, lui mi ha ringraziato. Mi sono talmente emozionata che anche io gli ho detto “grazie”, invece di “prego”. Qualche minuto dopo, alla fine del giro, l’ho incontrato di nuovo e gli ho detto “buongiorno”. Ormai il ghiaccio si era rotto, e per vari giorni l’ho salutato sempre. Poi, una mattina, lui non ha risposto. Forse non ha sentito bene, perché è vecchio, o forse il mio buongiorno era diventato una scocciatura.

Adesso siamo tornati al punto di prima, ai miei sorrisi accennati. A poco a poco, forse, torneremo a parlarci, o io troverò il modo di fargli un vero sorriso.


Photo by Eric Prouzet on Unsplash

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