I consigli degli sconosciuti

 


Quando ero più piccola chiedevo sempre consigli per tutto; non muovevo mai un passo senza prima aver chiesto il parere degli altri.

E questi altri erano un qualunque altro, non solo amici stretti, parenti, persone che conoscevo da anni. Chiedevo consigli a persone viste tre volte in vita mia, a persone che con molta probabilità non avrei mai più rivisto, a persone con le quali non avevo nulla in comune, a persone che facevano teatro con me e che quindi pensavo, in qualche modo, dovessero conoscermi più profondamente (ma non era mai vero).

Ergevo queste persone a massime esperte sulla mia vita, a massime esperte sulla vita in generale, a modelli da seguire.

E rimanevo irrimediabilmente delusa. Perché questi presunti esperti, in realtà, non sapevano nulla di me, così come io non sapevo nulla di loro. E mi davano consigli basati sulle loro vicende personali, che poi appiccicavano senza troppa cura alla mia.

Una volta una signora, mia vicina di casa, dopo che le avevo raccontato le mie sventure sentimentali del periodo, aveva dichiarato: “Eh sì, io ti capisco. Sono in una situazione molto simile.” E mi aveva raccontato di come il suo matrimonio, dopo tanti anni, fosse arrivato a un punto morto, e di come lei avesse una storia con un suo collega, che però non stava andando molto bene.

Tornando a casa mi ero anche sforzata di trovare dei punti di contatto tra le nostre vicende.

Parlavo con chiunque e di qualunque mio problema (la base, infatti, era parlare dei miei problemi, perché mi sembravano la cosa più interessante). Gli altri mi dicevano cosa pensavano, ma a me non piaceva quasi mai e me ne andavo via sentendomi peggio di prima. Ma continuavo imperterrita a chiedere consigli, perché non chiederli era peggio. Mi sembrava che i miei problemi fossero troppo difficili da contenere e, in questo modo, li facevo uscire per un po’.

Ma il guaio principale non era tanto il fatto che i consigli degli altri spesso mi paressero inutili o sbagliati; il vero guaio era che io, nonostante li ritenessi sbagliati, mi sentivo lo stesso in dovere di seguirli. Un consiglio può suonare come una regola, e io non sono brava a non seguire le regole.

A un certo punto i consigli non li ho chiesti più, o meglio, ho smesso di chiederli agli sconosciuti. Parlo con gli amici e ascolto cosa dicono, anche se evito di formulare la domanda: “Secondo te cosa devo fare?”, perché mi fa troppa paura. A volte mi danno consigli che non mi piacciono e ho difficoltà a non seguirli, ma tutto sommato me la cavo. E sono fiera di non chiederli più agli sconosciuti.

Ma gli sconosciuti me li danno lo stesso.

Gli sconosciuti, questa entità dalle molte facce, decide lo stesso di regalarmi quello che pensa su di me. Questi sconosciuti sono in genere più grandi e vogliono mettermi in guardia sul futuro. La maggior parte di loro ci tiene a prospettarmi un avvenire di stenti se deciderò di avere figli. Loro li hanno avuti e non sembrano stare troppo male, ma a me raccontano solo il peggio.

Non riesco a capire perché scelgano di regalarmi queste perle, cosa vedano nella mia faccia che li spinga a parlarmi così.

Sono al negozio leggero a comprare le solite cose e chiacchiero delle lezioni di inglese con la commessa. I bambini e i ragazzi a cui do lezione, i genitori che li iscrivono a scuole bilingue perché sono ossessionati dall’idea che possano non sapere l’inglese; quei genitori che, invece, sono più sereni e tranquilli. E poi la commessa mi racconta dei suoi figli, di come loro hanno imparato l’inglese, di come adesso lo sanno molto bene. Ora sono grandi, fanno l’università, chiarisce la commessa sorridendo. Ma poi, mentre versa i ceci nel mio sacchetto di stoffa, il suo discorso ha una virata improvvisa: “Se vuoi fare delle cose, non avere dei figli. Prima fai quello che vuoi fare, altrimenti non fai più nulla.” Mi sorride e chiude il sacchetto. E mentre metto i ceci nello zaino, insieme a tutte le altre cose, mi chiedo in che modo siamo arrivate a questa conclusione, partendo da un argomento così neutro e carino come l’inglese.

A volte capita quando c’è anche A. ed è quasi peggio.

Al negozio di mobili A. parla degli esami che sta facendo a medicina. La proprietaria del negozio annuisce e ci tiene a dirci che al marito mancavano soltanto tre esami per finire l’università, ma poi hanno avuto dei figli e lui si è laureato solo cinque anni dopo. Racconta con dovizia di particolari tutte le loro tribolazioni, tutti i sacrifici, e mentre A. e io ascoltiamo in silenzio, mi chiedo cosa le abbia suggerito di donarci questo racconto. Forse A. aveva un’espressione strana parlando degli esami di medicina? Magari ha usato una parola che a lei ha ricordato qualcos’altro? O forse il problema sono io, il problema è nella mia faccia, che dice delle cose anche stando zitta?

Non lo so. Forse è naturale dare consigli alle persone più giovani, ma non si potrebbe essere appena più positivi?

Per quanto mi riguarda, io mi sto allenando a non dare nessun consiglio ai ragazzini a cui faccio lezione. Appena ne sento uno che si fa strada nella testa, lo ricaccio subito indietro, a meno che non sia strettamente legato a quello che stiamo studiando.

Ma credo di dare consigli lo stesso, consigli che esulano da quello che studiamo. Provo a darne di positivi. Provo a non appiccicare la mia esperienza sulla loro, e a non raccontare solo le mie vicissitudini. Ma, nonostante questo, credo di stare fallendo. Temo di apparire, ai loro occhi, come la mia vicina di casa con il suo matrimonio che va in pezzi e il suo amante faticoso, che a lei sembrano esattamente identici a un ragazzo che non mi risponde al telefono.

 

Photo by Clay Banks on Unsplash

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