La magia delle parole
Ci sono dei ricordi di alcuni momenti che forse sono la
somma di momenti diversi che si sono ripetuti, un insieme di dettagli presi in prestito
qua e là per formare un unico momento che li contiene tutti.
In uno di questi ricordi sono in camera, seduta con mia
sorella al nostro tavolinetto di plastica giallo acceso. C’è il sole fuori,
forse è quasi estate o è primavera inoltrata, mia madre sta stendendo sul
balconcino. Io avrò dieci anni e mia sorella sei, credo, e sul tavolinetto
giallo sto provando a insegnarle a leggere.
Non sto ottenendo grandi risultati e sono un po’
scoraggiata. Non capisco come mia sorella possa sbagliare così tanto le lettere
da dire, io gliele mimo con le labbra e mi pare ovvio che lei dovrebbe riuscirci.
Mia madre mi dice che devo avere pazienza, è all’inizio, ma a me viene tanta rabbia,
non pensavo che sarebbe stato così faticoso. Ma continuo ad insistere perché ho
deciso che voglio insegnarle a leggere.
Non so se ci sono altri momenti come questo, con altri tentativi
da parte mia, credo di sì. Ma per qualche motivo, questo momento è quello che
mi è rimasto impresso. Forse non è un momento ma la somma di diversi dettagli,
appunto. Non so come mi fosse venuto in mente di insegnare a leggere a mia
sorella. Forse avevo subito il fascino dei libri in cui le protagoniste imparavano
a leggere dai nonni, dai padri, dagli amici, da sole. Forse avevo trovato un
modo per rendere più dinamico e realistico giocare alla maestra (ma non avevo
tenuto conto della riserva di pazienza necessaria).
O forse, anche senza dirmelo, volevo comunicare a un’altra
persona il linguaggio magico delle parole. Il linguaggio magico delle parole teneva
insieme la lettura e la scrittura, le due cose mi sembravano andare insieme, succedere
nello stesso momento. In entrambi i casi, accadevano delle strane magie.
Ho il ricordo di un altro momento, legato, questa volta, a
quando io ho imparato a leggere. Sto camminando a Villa Ada; sono, per la
precisione, nella parte di prato leggermente in discesa che porta alle giostre
e poi, più in là, alle altalene e agli scivoli. Non so che stagione sia,
potrebbe essere fine primavera o inizio autunno, perché c’è tanta luce e io e
mia sorella siamo venute con la nostra baby-sitter a Villa Ada dopo scuola.
Forse è l’inizio della seconda elementare, o forse è la fine della prima, non
lo so. Io cammino tenendo in mano il libro di italiano, in cui c’è un piccolo
testo che parla di una conchiglia rosa, o, più probabilmente, è accompagnato dall’illustrazione
di una conchiglia rosa. Non ricordo minimamente di cosa parli questo testo, ma
ricordo che io mi rendo conto di stare leggendo senza fermarmi. Le parole
scorrono una dopo l’altra e io non mi fermo. Sono affascinata da questa magia.
In un punto appena più avanti, davanti allo scivolo, c’è un altro
ricordo che appartiene a un altro momento, forse alla terza elementare. Siamo sempre
venute a Villa Ada con la baby-sitter, ma questa volta mi sembra di ricordare che
sia mattina, forse è un giorno di vacanza o la scuola è chiusa per qualche
motivo. Io osservo lo scivolo e ad un certo punto, non so perché, ho un
desiderio: voglio un quaderno per scrivere delle storie. Anche io posso scrivere
delle cose che appartengono allo stesso mondo di quelle che mi piace leggere.
Qualcuno mi compra un quadernone con la spirale, a righe e
con i fogli verdi. Per tanto tempo lo chiamerò “il quaderno verde” e ci
scriverò delle storie o, più spesso, pezzi di storie che inizio e non finisco.
Qualche anno dopo ne comprerò uno uguale, ma rosa, e passerò a “il quaderno rosa”.
Anche questa della scrittura mi pare una magia. Accadono delle
cose su quei fogli e, se passa un po’ di tempo, quando poi li rileggo non ho la
minima idea di cosa ho scritto, ed è come quando leggo una storia e non so
come andrà a finire.
Ad un certo punto, nel quaderno rosa, subentra la penna
stilografica che, in prima media, una professoressa mi propone di usare per
provare ad arginare il mio terribile disordine. In questo modo, dice, sarò
obbligata ad andare lenta. E poi, aggiunge, “visto che ti piace scrivere, ti
darà anche più soddisfazione”.
Negli anni si sono susseguite molte penne stilografiche che,
in effetti, mi fanno andare più lenta quando scrivo. Un po’ di tempo fa mi sono
accorta che la scrittura, forse, è una delle poche cose in cui io vado lenta. Vado
lenta perché a me piace scrivere sulla carta (con la rara eccezione di questo
blog che, spesso, scrivo direttamente al computer) e poi ricopiare al pc. Vado
lenta perché con la stilografica si va più lentamente. E vado anche lenta
quando digito le parole al computer, me ne sono accorta perché quando lavoro insieme
a un’altra persona, nel tempo che ci diamo per scrivere una cosa io porto a
termine un pezzo molto più corto.
E vado anche lenta a concludere le storie, a finire quello
che sto scrivendo in pochi giorni, dandomi un tempo da rispettare, magari immergendomici
per tante ore di seguito. Con la scrittura, più di tanto, non riesco a farlo. Riesco
ad aumentare il tempo poco alla volta. Riesco a fare di più, ma quando non ci
penso troppo.
A volte questa cosa mi dà un po’ fastidio, perché la trovo
scomoda e poco produttiva. Allo stesso tempo, però, mi piace, perché è una
caratteristica che la differenzia da tutto il resto delle cose che faccio.
Qualche mese fa, parlando della mia accelerazione costante,
A. mi ha detto: “A me sembra che l’unico momento in cui stai ferma sia quando scrivi
o leggi. Secondo me in quei momenti fai anche silenzio nella testa.”
Io ho annuito, anche se questa cosa del silenzio nella testa
non l’ho capita bene; ma visto che io parlo sempre, anche quando sono da sola,
e penso ossessivamente, mi è sembrato un bel traguardo, e anche se non so se è vero
e non l’ho capito, non ho voluto rovinarlo.
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