Il riposo e la sua fatica

 


Quattro giorni fa mi è venuta l’influenza e molte persone alle quali l’ho detto hanno commentato: “Riposati, mi raccomando.” Me l’hanno detto quasi tutte e quasi tutte hanno aggiunto quel “mi raccomando”.

Come se avessero paura che io non avessi la minima intenzione di riposarmi.

Era una giusta paura. Io non sono molto brava a riposarmi.

Sarebbe molto facile, forse, ma c’è una parte di me che oppone resistenza. Non so quanto sia il senso del dovere e quanto la paura di non riuscire mai più a tirarmi fuori dal dolce mondo del riposo, una volta che ci sono entrata dentro. Potrei scoprire che riposarsi è bellissimo e decidere di non fare mai più nulla.

Non credo che al momento ci siano queste possibilità all’orizzonte. Ieri mattina, prima di fare yoga, ho cucinato delle mele cotte e una torta di mele. Poi ho fatto yoga. Ho quindi deciso che il pavimento della cucina era molto sporco, e andava lavato. Ho cambiato il copriletto. Ho messo su una lavatrice.

Appena alzata avevo chiesto ad A. se secondo lui sarei potuta andare a correre all’ora di pranzo, lui mi aveva guardato come si sarebbe osservato un alieno. Poi aveva decretato: “Fa freddo, è bagnato, hai la tosse.” Io avevo risposto: “A me piace tanto correre. Ora non potrò correre mai più.”  

Quando sono malata, la mia vena melodrammatica prende il sopravvento.

Quindi, per esorcizzare la cosa, ho sistemato la casa.

Da piccola, invece, adoravo ammalarmi. E non mi ammalavo mai. Come adesso, in realtà, solo che adesso, quando mi ammalo, mi sembra terribile, a meno che non capiti in momenti propizi, per esempio quando mi impedisce di fare qualcosa che non mi va di fare e che non ho il coraggio di rifiutare. In quei casi è meraviglioso.

Da piccola, invece, a volte provavo proprio ad ammalarmi. Ricordo una volta in cui, avrò avuto circa dieci anni, appena uscita dalla doccia ho aperto la finestra del bagno e mi sono messa davanti all’aria fredda. Avevo sentito che in quel modo mi sarei ammalata di sicuro. Non è accaduto assolutamente nulla.

Le rare volte in cui sentivo qualche sentore di febbre mi veniva consegnato il termometro e avevo diritto a cinque preziosi minuti aggiuntivi di televisione mentre mi provavo la temperatura con grande speranza. Controllavo di aver infilato bene il termometro sotto l’ascella e rimanevo immobile per diversi minuti, terrorizzata dall’idea di vanificare tutto per un lieve movimento sbagliato.

Quando mia madre arrivava a controllare, la osservavo per capire subito quale sarebbe stato il verdetto. A volte mia madre ci metteva un po’ a dare la risposta, perché per un lungo periodo abbiamo avuto un termometro difficilissimo da leggere, con una riga finissima che era quasi impossibile riuscire a vedere. Erano secondi interminabili.

Se il verdetto era positivo, avevo il diritto di non andare a scuola. Di vedere un film (in questi casi le ferree regole di mia madre sull’uso della televisione si allentavano appena), di leggere quanto volevo, di starmene tranquilla a casa. Ma, soprattutto, avevo il diritto di sentirmi legittimata a farlo, perché avevo la febbre. Il dramma di quando il termometro non segnava un’alta temperatura, infatti, era che, anche se non mi sentivo tanto bene, mi sembrava sbagliato restare a casa. La febbre era il metro inequivocabile per stabilire se stavo male oppure no, se potevo stare tranquilla nel mondo placido e caldo della casa oppure no.

A volte, anche un forte raffreddore o un’estrema debolezza potevano bastare. Mi rintanavo in casa e sprofondavo in mondi inventati dai quali era difficile uscire.

Un po’ è successo anche questa volta. Il primo giorno a casa mi sono trovata così sorpresa del tempo infinito davanti a me, che ne ho riempito un po’ con telefonate e messaggi per annullare gli impegni del giorno successivo. Questo solo dopo aver scoperto che avevo davvero la febbre ed aver chiesto a varie persone se secondo loro avevo davvero il diritto di annullarli. Ho riempito altro tempo facendo un tampone per sicurezza e scrivendo al mio medico. Fatte tutte queste cose, ho deciso che potevo considerarmi ufficialmente malata. Sono scivolata in un’atmosfera ovattata in cui aprivo un libro dietro l’altro.

Ho quindi commesso il grave errore di farmi catturare dal riposo.

Per uscirne indenne, ho dovuto recuperare.

Ieri è stato l’ultimo giorno trascorso interamente a casa (se si escludono dieci minuti in cui sono uscita a fare delle fotocopie, vestita con quattro strati di vestiti e il cappuccio) ed è stato uno dei giorni più faticosi delle ultime settimane.

Mi sono ritrovata alle nove e mezza di sera a finire tantissime cose urgenti, e alle dieci e mezza a oscillare per la casa ubriaca di stanchezza.

Stamattina mi sono alzata distrutta, mi sono preparata di corsa, sono uscita, sono tornata, mi sono ritrovata sempre oscillante per la stanchezza, questa volta dopo pranzo.

Quindi mi sono detta: “Adesso finalmente mi riposo”.

Solo che c’era da trovare una fine per questo articolo.

 

Photo by Kelly Sikkema on Unsplash

 


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