Il panico e il dentista

 


Quando mia sorella ed io eravamo piccole, riferendosi ai nostri denti, mia madre proclamò: “Avete preso dalla famiglia di vostro padre. Io non c’entro nulla. I miei denti sono ottimi, i suoi un disastro.”

Sia io che mia sorella, infatti, abbiamo collezionato una lunga serie di apparecchi e altre simpatiche procedure.

Ma devo dire che, da bambina, avevo vissuto la cosa abbastanza bene. Certo, era un po’ noioso andare dal dentista, ma quando uscivo mia madre mi comprava un gelato e se avevo ancora l’anestesia era buffo sentire una parte della bocca totalmente addormentata. Pensavo con un brivido a cosa sarebbe successo se non fosse tornata mai più come prima, mentre schiaffeggiavo il mio labbro senza sentire alcun dolore.

Il dentista chiacchierava e mi chiedeva informazioni sulla scuola, alle quali io ovviamente non potevo rispondere, e allora lui continuava a raccontarmi dei suoi figli, che avevano la mia stessa età, anche se non ricordo nulla di quello che mi diceva. Ricordo però che dalla finestra di fronte al lettino si vedeva la Rinascente, e passavo lunghissimi minuti ad osservare l’insegna luminosa quando era buio.

Avevo inoltre scoperto lo straordinario potere dell’anestesia quando il dentista aveva dovuto togliermi il primo di una serie di tre denti definitivi per fare spazio nella mia bocca (“è tutta colpa di tuo padre” continuava a ripetere mia madre). All’inizio ero un po’ preoccupata, nonostante le rassicurazioni del dentista. Mentre armeggiava con i miei denti senza che io sentissi alcun dolore pensavo che stesse compiendo delle operazioni preparatorie e che il brutto sarebbe ancora dovuto arrivare. Invece, qualche istante dopo aveva tirato fuori dalla mia bocca un affare bianco e sanguinolento senza che io mi accorgessi di nulla.

Era bruttissimo. Era alto il doppio dei denti da latte che, prima di andare a dormire, infilavo nel buco del pavimento in corridoio per il topolino; il dentista mi aveva spiegato che era perché questo qui, al contrario dell’altro, aveva le radici. Lo aveva chiuso in una piccola scatolina con il tappo rosso e me l’ero portato a casa.

Lo guardavo di tanto in tanto, nella sua scatolina, con un misto di disgusto e ammirazione e, quando veniva qualche amico a giocare a casa mia, glielo mostravo, fiera. Finalmente anche io avevo qualcosa di interessante da esibire. Non avevo avuto incidenti, né malattie gravi alle quali ero sopravvissuta, né parti del corpo ingessate, ma almeno avevo quel dente disgustoso che era uscito dalla mia bocca. Poi i denti erano diventati tre ed ero stata ancora più fiera, perché non avevo neanche avuto paura.

Poco dopo avevo dovuto mettere l’apparecchio ed ero diventata anche io una persona con l’apparecchio, come molti miei coetanei. Mi sembrava una bella identità da avere. Ero contenta che fosse quello di ferro, fisso e orribile, perché così si sarebbe visto di più. Ad un certo punto avevo addirittura dovuto portare degli elastici che andavano dalla parte di sopra a quella di sotto dell’apparecchio, e quando ridevo troppo o spalancavo la bocca saltavano via. Ma, comunque, mi era sembrata una bella cosa.

Avevo letto Boy di Roald Dahl, dove il dentista estrae a tradimento le tonsille con un ferro incandescente infilato nella gola dei bambini, e i dentisti mi erano sembrate delle figure mitiche e spaventose.

Delle figure strane che passano la vita a guardare dentro la bocca delle persone, a dare nomi diversi a pezzetti bianchi tutti uguali e a prevedere spostamenti di questi pezzetti bianchi con estrema precisione.

Da sempre mi chiedo perché chi fa il dentista vuole fare il dentista, cosa avrà scoperto dentro alla bocca delle persone. Non riesco ancora a trovare una risposta.

Ho pensato a tutto questo perché da mesi quasi ogni settimana mi ritrovo dal dentista.

La realtà ha sorpassato le previsioni di mia madre e nel tempo ho collezionato vari apparecchi, un dente finto, un dente da latte caduto a vent’anni, lasciandomi con un buco su un lato della bocca.

Mi ritrovo dal dentista e rifletto su quanto sarà il tempo complessivo della mia vita passato dal dentista. Vorrei pensare ad altro ma è difficile.

Al contrario del dentista di quando ero piccola, questo non parla. In alcuni momenti mi dà indicazioni su come aprire la bocca o su come voltare il viso, e io mi concentro nel farlo nel miglior modo possibile, in mancanza di altro da fare. Nelle pause tra un movimento e l’altro mi concentro invece nell’assumere uno sguardo vago e tranquillo, come se io fossi da un’altra parte.

Cerco di ascoltare la radio, ma gli attrezzi del dentista sono troppo rumorosi e non si riesce a sentire.

Allora immagino di avere idee infinite su tantissime cose da scrivere mentre sono seduta lì, ma avere dei ferri in bocca non pare aiutare molto la creatività.

Allora per disperazione ho iniziato a scrivere questo articolo nella mente.

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