Settembre

 


Qualche giorno fa il padre di A. ha detto: “È ora di mettere via gli ombrelloni”. Quel pomeriggio sono scomparsi dal giardino. Io sono restata ferma ad osservare le macchie di prato senza erba su cui erano state poggiate le basi degli ombrelloni e ad osservare la luce che aveva cambiato intensità. Ho aspettato di essere travolta dal magone di fine estate.

Mi sono ritrovata nel giardino della casa al mare il giorno in cui mio nonno decideva di mettere via la piccola tettoia verde sopra alla porta del salotto.

Mio nonno metteva via, una dopo l’altra, ogni cosa che c’era in giardino. Per tutta l’ultima settimana, ogni giorno, si scopriva che un altro pezzo era andato via, e gli adulti imprecavano per l’estrema scomodità della cosa. A me, più che scomoda, sembrava una procedura straziante, vedere ogni pezzo andarsene via. Una sedia, una sdraio, un pezzo del tavolo allungabile, tutto il tavolo allungabile e la mattina della partenza la colazione si doveva fare sul tavolino più piccolo. Ma la cosa che a me dispiaceva di più era la tettoia verde. Non si notava subito la sua mancanza, appena si entrava dal cancello del giardino, ma ci si accorgeva di qualcosa di diverso, qualcosa di stonato in quello che si vedeva.

Per me la tettoia verde che andava via voleva dire che l’estate era finita.

Iniziavo a piangere, perché sapevo che, dopo poco, sarei andata via anche io. Per tirarci su, con mia sorella, mia cugina e la nostra babysitter facevamo una spedizione alla cartoleria più vicina, di fronte alla gelateria, a scegliere nuove cose per la scuola. Lì mi immergevo nell’odore di carta, di penne e di matite e mi trovavo subito trasportata da una fine a un inizio. Mi trovavo ad immaginare che cosa sarebbe successo dopo pochi giorni e dimenticavo che la tettoia verde non c’era più.

Quando, tornata a casa, scoprivo che un altro pezzo era andato via, mi immergevo nelle pagine vuote dei quaderni nuovi e nelle matite ancora perfette.

Qui in montagna, dopo aver osservato il giardino senza ombrelloni, sono tornata dentro casa e mi sono seduta. E così, di botto, senza alcun preavviso, mi è venuto in mente un punto vicino alla casa del mare, neanche un posto particolarmente bello, un angolo in cui c’erano dei cassonetti davanti a un terreno incolto. Non so perché, di tutti i posti, quello mi si sia piantato in testa. E poi ho pensato a quando arrivavamo lì con la macchina da Roma, all’inizio delle vacanze, e quello era l’ultimo angolo prima di girare per la strada di casa. E mia madre un anno, proprio in quel punto, aveva esclamato: “Si sente proprio che c’è aria di mare.” Io e mio padre le avevamo risposto, laconici: “È solo perché sai che c’è” e lei ci aveva detto che non eravamo romantici.

Quelle stradine appena si arrivava in macchina erano sempre uguali, ma io controllavo che lo fossero, e il loro modo di essere sempre le stesse sembrava parlarmi.

Ancora riesco a sentire il rumore del cancello che si apriva per far entrare la macchina, il rumore delle ruote sulla ghiaia del giardino, e quel rumore voleva dire: siamo arrivati. Anche la casa era sempre uguale, ma nelle stanze c’erano piccole cose lasciate dall’anno precedente: qualche numero di Topolino, dei foglietti, un blocchetto, delle penne che pensavo perse. E allora quell’estate iniziava portandosi appresso tutte quelle precedenti.

E finiva con la scomparsa della tettoia verde e, subito dopo, con il primo acquazzone al mare. Gli ombrelloni dello stabilimento venivano chiusi per difenderli dal vento e la spiaggia aveva un altro aspetto. L’acqua era scura e la sabbia bagnata scricchiolava sotto i piedi, quando ci provavo a giocare aveva una consistenza diversa che sembrava dirmi: tra poco vai a casa. Anche la spiaggia vuota diceva la stessa cosa e io me ne stavo lì, in quella sabbia diversa, a riempirmi di quella sensazione malinconica e un po’ dolce. Appena sentivo il respiro andare via se pensavo all’estate finita e osservavo il cielo nero mi ricordavo delle mie penne nuove e correvo a casa a guardarle. Dovevo prima fare la doccia, perché ero bagnata dalla pioggia e aveva smesso di fare caldo, e mi ritrovavo in dei pantaloni lunghi che non mettevo da mesi ad annusare le pagine bianche.

Immaginavo tutto quello che sarebbe potuto succedere in autunno, anche se non avevo tante idee precise ma, più che altro, immagini di foglie che cadevano, io che ci correvo dentro, io che indossavo vestiti bellissimi, che venivano quasi da un’altra epoca, io che andavo in carrozza sotto a un viale di aceri con le foglie che mi volavano intorno…

Non immaginavo un vero autunno ma mi convincevo di essere diventata Anna dai capelli rossi, probabilmente. Mi cullavo in queste idee per un po’ e riuscivo quasi a dimenticare che la tettoia verde non c’era più.

 

 

Photo by Lucas George Wendt on Unsplash

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