Il panico e Pollyanna
Quando ero piccola,
ad un certo punto ho letto Pollyanna. Credo che molte persone ad un
certo punto abbiano letto Pollyanna.
Credo di aver avuto
sui dieci anni, più o meno. Non ricordo molto, a dire la verità, come non
ricordo molto di tanti altri libri che ho letto da piccola, ad eccezione di
quelli che ho riletto infinite volte. È una cosa un po’ triste ma potrebbe
anche essere vantaggiosa, perché vuol dire poterli leggere di nuovo e non sapere
già tutto.
In genere ricordo solo
delle immagini. Delle atmosfere. Oppure dove ero quando ho letto un determinato
passaggio.
Di Pollyanna ricordo
un dialogo all’inizio, in cui lei spiega alla zia Polly in cosa consiste il
gioco della felicità. Racconta di quando aveva ricevuto per Natale delle
stampelle invece del regalo che voleva e di essere stata contenta.
“Come si fa ad
essere contenti di aver ricevuto delle stampelle?”
“Papà mi ha fatto riflettere
che avrei potuto essere felice di non averne bisogno.”
La zia Polly non era
stata, giustamente, molto convinta.
Io, invece, ne ero
rimasta molto colpita. Così colpita che anche adesso, di tanto in tanto, mi rivengono
in mente le stampelle. A volte senza nessun apparente motivo.
Un paio di giorni fa
sono dovuta correre a spostare la macchina di A che era stata parcheggiata su
un passo carrabile da mia madre che non se ne era accorta. Non mi era molto
chiaro perché lo dovessi fare io. A mi ha portato le chiavi sotto casa dopo
aver scoperto il misfatto, mia madre ha esclamato: “Che cosa terribile!” e non
si è mossa dalla sedia, spiegandomi: “Devi andare tu, io non sono in grado”.
Quindi mi sono
trascinata fuori dal portone odiando tutti. Mi ci sono trascinata anche due
volte, perché avevo dimenticato la mascherina, e ho usato la seconda volta per
sbattere con ancora più forza la porta di casa ed esprimere di nuovo il mio
disappunto.
Mentre camminavo mi sono
venute in mente le stampelle.
“Puoi essere
contenta di poter guidare la macchina, pensa se non avessi potuto guidarla”. È arrivato
questo pensiero. L’ho guardato per un attimo e poi mi sono detta: è una
declinazione delle stampelle. Sono sempre loro.
L’allenamento fatto
da piccola per diventare come Pollyanna è rimasto sotto forma di stampelle.
Per il resto, non
credo sia stato un allenamento particolarmente fruttuoso.
Avevo subito
riscontrato una mia evidente difficoltà nell’avere il suo approccio, per non
dire una totale incapacità.
Io tendevo più ad
essere la zia Polly che si lamentava. Ma mi imponevo di essere Pollyanna. Mi
sforzavo di fare il suo gioco della felicità. Solo che, generalmente, non avevo
successo, e allora mi arrabbiavo con me stessa per non esserne stata capace. Mi
arrabbiavo e non ero contenta di me stessa. Allora mi accorgevo che questo era
totalmente in conflitto con il mio progetto di diventare come Pollyanna. E
appena me ne accorgevo mi arrabbiavo con me stessa. E diventavo ancora meno
simile a Pollyanna. Non aveva mai fine.
Con il tempo ho
capito che il gioco di Pollyanna è un gioco molto subdolo. Credo che ci siano
arrivati tutti, quindi la mia non è una particolare scoperta rivelatrice. Di
recente, però, ho provato a sperimentare una variante. La variante si chiama:
fare finta. Me ne ha parlato tempo fa una mia amica. “Se qualcosa non va bene,
tu fai finta che vada bene.” Mi ha anche esposto un esempio a conferma del
metodo. “Oggi ho dormito pochissimo e malissimo, mi sono addormentata
piangendo, mi sono svegliata distrutta e in ritardo e ho fatto tutto di fretta.
Poi però ho fatto finta che andasse tutto bene. Ho fatto finta di essere
riposata. Al lavoro mi hanno detto che avevo una bella faccia.”
Il gioco del fare
finta mi sembra una variante onesta. Non presuppone che ci si creda. È questo
il punto. Presuppone che si faccia finta. Fare finta è più facile.
Però si sa, che quando si fa finta per bene, poi non è più tanto finta, diventa anche un po’
vero. Facendo finta il gioco di Pollyanna non diventa poi così difficile.
Ho trovato parcheggio e sono tornata a casa.
“Fortuna che non era
il posto degli invalidi!” ha esclamato mia madre appena mi ha visto. “Mi era
venuta l’ansia retroattiva al pensiero.”
Quando mi domando le
origini del mio panico devo probabilmente farmi meno domande e pensare di più a
mia madre.
illustrazione di Anatoly Slepkov
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