Il panico e i traslochi (e le luci strane)



Quando ero piccola pensavo che cambiare casa sarebbe stata un’esperienza meravigliosa. Chiudevo gli occhi e immaginavo il momento in cui avrei messo tutti i miei averi in alcune scatole per poi svuotarli in una nuova stanza, vuota e pronta per essere riempita da capo. Sarei stata una persona nuova, una persona con le scatole da svuotare.

Soprattutto, sarei stata come le varie protagoniste dei libri che leggevo, che cambiavano casa ed erano tristi, e dovevano poi abituarsi a una nuova scuola nella quale si sentivano estranee, perdevano tutti gli amici e dovevano farsene di nuovi. Mi sembrava qualcosa di meravigliosamente triste. Qualcosa che avrebbe potuto incidere sulla mia vita che, per il resto, non sembrava piena di eventi tragici o catastrofici da affrontare e risolvere.

Questo desiderio non si è mai avverato perché i miei genitori non hanno mai cambiato casa, vivono sempre in quella in cui sono nata. Ad un certo punto, quando avevo tredici o quattordici anni, credo, si era parlato per un po’ di spostarsi in una casa più grande. Io ero andata a vederne qualcuna con i miei genitori, impaziente ed emozionata, solo per scoprire che guardare case è un’attività molto deprimente, perché sono sempre diverse da come uno le immaginava. Hanno sempre qualche cosa che non va, qualche angolo cupo. Ed è strano vederle con tutti i mobili delle altre persone, che magari sono anche brutti. Ogni volta andavo via con un senso di amaro in bocca.

Alla fine, i miei genitori avevano optato per comprare uno studio per mio padre, liberando così una stanza in casa. L’unico trasloco che avevo dovuto fare era stato spostare le mie cose dalla camera che dividevo con mia sorella alla mia nuova stanza da sola. Non ricordo grandi sconvolgimenti e rivelazioni, rivedo solo me che, appena preso possesso della stanza, guardo Gioventù Bruciata sulla piccola televisione della mia camera, che è poggiata per terra perché ancora non è stata sistemata, ed è un po’ scomodo guardarla così.

Nel corso del tempo ho fatto vari traslochi per conto mio ma non li ho mai considerati particolarmente magici, solo una grande scocciatura. Forse perché ho sempre conservato la camera a casa dei miei genitori piena di libri, di quaderni e di foto appese. Andavo in una nuova casa con qualche valigia e poco più, quando la lasciavo avevo qualche valigia e scatola in più da portare via. Non c’era mai niente di pieno da svuotare o di vuoto da riempire.

Durante le vacanze di Natale, A e io abbiamo fatto un trasloco. Anche questo mi è sembrato un trasloco finto. I miei libri sono sempre nella stanza a casa dei miei genitori, che nel frattempo è diventata la postazione per lavorare in smart working di mia madre e un deposito per qualunque cosa. Forse, però, è stato un po’ più vero delle altre volte, perché abbiamo dovuto svuotare la casa di tutti gli oggetti e di qualche mobile, e io ogni volta pensavo che non avremmo finito mai più, anche se la casa è minuscola e ci abbiamo impiegato solo tre mattine a fare tutto.

E mentre spostavo le cose e guardavo gli angoli vuoti avevo una strana sensazione, non capivo se fosse sollievo o nostalgia. Ho rivisto me in quella casa nell’ultimo anno, probabilmente perché in ogni piccolo angolo ho passato ore ed ore ed ore. Ho scoperto che, quando guardo questa casa, guardo me chiusa dentro questa casa.

Ho ripensato al suo odore. Alla sua atmosfera in alcuni momenti. Ma, soprattutto, a come arrivava la luce in alcune ore della giornata, a come si legava a quello che stavo facendo. Diverse luci che entravano dalla finestra scandivano le mie attività.

Mi sono ricordata di quando, qualche mese fa, ad ottobre, una mattina di sole, mi ero bloccata in cucina. Stavo sciacquando una ciotola e mi stavo versando del tè nella tazza quando mi ero bloccata di colpo. Avevo pensato: “Il lockdown”. Non avevo capito subito perché. Poi avevo iniziato a vederlo. Era la stessa luce. Forse anche l’aria, era la stessa. Forse era il mio sbrigarmi la mattina e finire la colazione, sciacquare la ciotola, cambiarmi. Durante il lockdown mi portavo una tuta in bagno, mi lavavo, mi mettevo la crema sul viso, mi cambiavo i vestiti, perché volevo togliermi il pigiama e dirmi: “Inizia una nuova giornata.” Forse sono state tutte queste cose insieme che sono piombate dentro di me ferma in cucina mesi dopo e mi hanno preso alla gola.

Allora la casa mi è sembrata un posto troppo pieno di luci e di atmosfere. Mi è sembrato un posto da cui andare via.

Mentre la svuotavo e sentivo quella strana sensazione, mi sono detta: “Il sollievo vincerà sulla nostalgia”.

Mi sono rasserenata.

A e io siamo tornati una settimana dopo a prendere un paio di oggetti che avevamo scordato, abbiamo incontrato la nuova inquilina che trasportava le sue cose. A le ha spiegato come si chiude il gas. Siamo rientrati in macchina. Io ho iniziato a piangere.

“È tristissimo" ho detto “mi viene troppa nostalgia”. 

Il verde acqua della parete del salotto della vecchia casa è bellissimo, l’ho guardato per mesi, le gambe incastrate sotto al piccolo tavolino, mentre facevo lezione dal computer.

Photo by Dan Meyers on Unsplash



 

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