Il panico per il pianeta travasa l'acqua e fa amicizia

 


Ieri, prima di pranzo, stava per andare via l’acqua. Usciva dal rubinetto della cucina solo un filo sottile.

A ha iniziato a riempire bottiglie e pentole.

Io ho iniziato a lamentarmi. Poi ho riempito anche io dei barattoli d’acqua. Intanto mandavo avanti un’altra importante attività, ovvero dire che qui in montagna non ci voglio stare senza acqua, che senz’acqua l’inverno è orribile, perché non puoi fare neanche una doccia calda, che se non parte la caldaia moriamo di freddo. 

E intanto pensavo a quando davvero è andata via l’acqua quest’estate e dicevo che non avere l’acqua  l’estate era orribile, perché si suda e si vuole fare la doccia e poi si ha sete e si vuole bere.

Questa attività è durata molto poco perché mi sono presto annoiata da sola.

Mentre riempivo di acqua vari recipienti ho ripensato a tutti i libri sull’ambiente che leggo. A tutti gli articoli. Agli studi che faticosamente provo a capire mentre prendo appunti per non far scivolare tutto via. Mentre prendo appunti, il mio panico per il pianeta si siede accanto a me pronunciando frasi incoraggianti come “a cosa serve?” e “tanto non capisci”, ma a volte è più gentile e dice cose come “facciamo merenda?”, che è sempre una strategia per distogliere la mia attenzione, ma almeno è una strategia carina.

Alcuni di questi libri e articoli parlano di cose molto carine come la scarsità d’acqua e l’acidificazione degli oceani. Durante il lockdown ho letto un libro che parlava quasi unicamente del problema della siccità, lo leggevo dopo pranzo, in balcone. Forse non era proprio la lettura più adatta al periodo. Devo dire che però lo vedevo come un problema talmente lontano (e, devo, dire, anche poco interessante. Forse leggerlo dopo pranzo, con gli occhi che si chiudevano, non aiutava) che non ci pensavo poi molto.

Poi quest’estate ho iniziato a fare docce brevissime e gelide con l’acqua rimasta, a travasarla dai pentoloni, a trovare modi ingegnosi per lavare i piatti e consumarne poca (falliti miseramente), a contare le bottiglie, ad andare alla fontana per riempire quante più borracce possibile, con la paura che qualche altro avventore della fontana si avvicinasse troppo e senza mascherina. Ho fatto tutto ciò per due- due- giorni e mi sono sentita una sopravvissuta. Mandavo messaggi ad amici e parenti dicendo: “Siamo senza acqua!”, chiamavo sconsolata, raccontavo i nostri enormi sacrifici, le nostre battaglie. Due giorni.

Ad un certo punto il panico per il pianeta mi ha detto gentilmente che forse potevo anche sentirmi un po’ ridicola. Mi sono sentita ridicola.

Ieri l’acqua non è più andata via e non ho più pensato alla siccità. A ha svuotato i barattoli mentre io gli dicevo: “No, non svuotarli, per favore!” e il suo sguardo mi rispondeva: “Non servono più, l’acqua non è andata via.” Anche la mia ansia non è mai andata via. È lei che mi  fa dire di non svuotare i barattoli. 

Quindi, come accennavo anche qui, ho iniziato da un po’ a cercare parole per descrivere meglio queste ansie per il pianeta. Tutti questi amici del panico per il pianeta, tutti suoi sotto gruppi, ognuno con una sfumatura diversa da offrire.

La mia preferita credo che sia "ecoansia". Mi sta simpatica perché, prima di tutto, c’è la parola "ansia". E poi perché il prefisso "eco" la fa sembrare un’ansia dolce e carina, colorata da foglie autunnali,  legno, alberi, montagna.

L’ecoansia nella realtà è la preoccupazione, più o meno accentuata, per l’ambiente, per la distruzione degli habitat naturali, per il cambiamento climatico. 

Preferisco continuare a pensarla come una cosa carina. Un'amica del panico per il pianeta che ama le montagne e mi dice che se mi viene da piangere perché in altre montagne, diverse da quelle che vedo io, ci sono degli incendi, è perché c'è lei, l'ecoansia. 

Non è che il pianto va via, ma intanto acquista un nome. 

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