In montagna con il panico
Quando avevo undici anni ed ero
in montagna con i miei genitori e mia sorella ho formulato una teoria sul mio rapporto
con la montagna.
“La montagna è come la matematica” ho enunciato a mio padre
mentre eravamo fuori dall’albergo a guardare il tramonto. Poi ho continuato,
cercando di rendere meno oscuro questo paragone: “È una cosa che quando ci
pensi sembra bella e ti piace, ma poi quando la fai non è tanto bella. Come la
matematica. È bella se la pensi in teoria, ma poi quando la fai è brutta.” Non
ricordo commenti da parte di mio padre. Difficile anche capire che cosa
commentare esattamente.
Non deve essere stata una teoria portata avanti con tanta
convinzione perché, per tutti gli anni seguenti, siamo sempre andati in
montagna l’estate. A poco a poco mi sono abituata. Ho apprezzato i panorami. I fiori.
I rifugi. Soprattutto i rifugi.
Per non perdere l’allenamento con il panico, però, ogni anno
in montagna ne ho trovato uno nuovo: un anno, per esempio, c’era il panico che
mi si otturassero le orecchie con l’altezza, cosa che avveniva se si sceglieva
di prendere il pulmino per arrivare in alcuni posti lontani.
Oppure c’era la claustrofobia nel prendere l’ovovia.
Quando ero un po’ più
grande c’era il panico di perdere troppo tempo a passeggiare e non fare
nient’altro, ma questo del perdere tempo è un panico talmente grande e ricco di
esempi che merita dello spazio a parte solo per sé.
Però tutto sommato mi sono riappacificata con la montagna. Anche
perché spesso c’era mia sorella a preoccuparsi di lamentarsi, fermandosi a metà
di una passeggiata e dichiarandosi assolutamente incapace di proseguire. Mia
madre allora tirava fuori un cioccolatino e si inventava che era un
cioccolatino magico pieno di energia. Mia sorella ci credeva. O, probabilmente,
faceva finta di crederci per avere tanti cioccolatini.
Alla fine del liceo, quindi, avevo risolto il mio problema
con la montagna e il suo essere come la matematica (non avevo risolto quello
con la matematica, ma mi pare un problema più marginale).
O, almeno, così pensavo.
Poi, quasi due anni fa, A mi ha portato in montagna. Io ho
accettato volentieri. Non ho pensato alla matematica. Semplicemente, ho detto: “Che
bella la montagna!”
E mi sono ritrovata alle sette di mattina su una ripida e
infinita salita dietro casa di A, che me l’aveva tranquillamente presentata come:
“Una passeggiatina che facevo tutti i giorni di corsa, in una mezz’oretta”. E
io non ho pensato che avevo visto A fare verticali su verticali nel salotto, fare trazioni con pesanti zavorre, attraversare Roma in un
attimo in bicicletta. Non ci ho pensato e l’ho seguito ingenuamente.
Dopo dieci minuti di salita ho capito l’enorme fregatura. Ho
iniziato a chiedere quanto mancava. A ha iniziato a non sopportarmi. Io ho
iniziato a non sopportarlo per non sopportarmi. E per infliggermi quella fatica
tremenda. Mi sono ricordata di mia sorella che si piantava e si rifiutava di
andare avanti. Mi sono rifiutata pure io.
Per alcuni tratti A mi ha spinto e mi ha dato la mano, in
realtà per trascinarmi e provare a farmi arrivare in cima, non sapendo più come
fare.
Ad un certo punto, sorprendentemente, siamo arrivati in
cima. A mi ha detto: “Vedi che bel
panorama.” Io l’ho guardato appena, ma pensavo solo al mio fiato, ormai finito
per sempre, e alle mia gambe, ormai distrutte per sempre. “Ne vale la pena, no?” Chiaramente per me era
un no, ma ho annuito. Mi sono ripetuta: “Mai più”mentre scendevamo.
Il giorno dopo ero di nuovo lì. Anche quello ancora dopo.
Poi siamo passati ad altre passeggiate più lunghe e più
faticose, in cui A credo abbia seriamente considerato l’ipotesi di abbandonarmi
in mezzo a un prato.
Non so bene come e soprattutto perché, ma ho continuato a
seguire A e a camminare. Incredibilmente, ad un certo punto ho anche iniziato a guardare il
panorama mentre camminavo, perché non ero troppo distrutta per notarlo. Le mie
gambe hanno smesso di lamentarsi e si sono arrese all’idea di camminare. Anche
il panico si è arreso. Ha iniziato a guardare il panorama anche lui. Ha
iniziato a congratularsi con sé stesso per le salite. Ha iniziato a stare
zitto.
Quindi credo di aver definitivamente risolto (o quasi) il
problema della montagna.
Non so se questo voglia dire che dovrei anche risolvere
quello con la matematica. Forse anche la matematica non è poi bella solo in
teoria ma lo è anche in pratica.
Non credo però che
andrò a verificare.
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