Il panico delle partenze




Io odio partire. 

Lo odio proprio. Soprattutto partire per conto mio, senza A.

Negli anni mi sono detta che non è proprio così. Che in realtà partire mi piace, solo che all’inizio non mi va di farlo. È una di quelle cose in cui ci si deve forzare ma che poi piacciono.

Solo che di recente sto un po’ rivalutando questo concetto del forzarsi per fare le cose che piacciono. Mi sembra abbia una falla da qualche parte. E infatti sto facendo molte ma molte meno cose. E credo di aver capito che la mia più grande fonte di motivazione, il mio motore più grande, era proprio questo forzarmi per fare cose che mi piacciono. Anche se poi non è sicuro che, dopo che ci sia forzati per farle, poi piacciano davvero. Il mio motore era forzarmi e basta.

L’odio per la partenza, che magari non è proprio odio ma anche un piacere molto (molto) ben nascosto, ce l’ho da sempre. Non è solo o soprattutto la partenza, è la faccenda di separarsi dalle persone. 

Io sono ovviamente convinta che se me ne vado poi non ritrovo più le persone. Se io non mi accerto del loro stare sempre lì, a portata di mano, e del mio essere sempre alla loro portata di mano, allora ho paura che le persone non ci siano più. Si dimentichino della mia esistenza.
Quindi inizio a scrivere messaggi  a metà della mia rubrica dicendo: “Parto per una settimana ma poi torno il giorno tal dei tali e ci possiamo organizzare per vederci”. E la maggior parte di queste persone sono persone che non vedo per settimane e settimane, a volte anche per mesi. Ma il fatto di partire pone tutto in un’altra prospettiva.

Questo orrore al pensiero che le persone possano scomparire nel giro di una settimana e rimpiazzarmi con qualcun altro è chiaramente amplificato in alcuni casi specifici. Quando ero piccola (e neanche troppo piccola) questa persona era mia madre (difficile capire in che modo la voce “rimpiazzarmi” potesse riferirsi al suo caso). Ora è A.

Ma in realtà, forse, in questi due casi, il punto non è che ho paura di essere dimenticata.
È proprio l’idea di separarmi. Come se, in un modo molto sano ed equilibrato, io avessi consegnato un pezzetto dei miei contorni a queste persone e quindi, partendo, questo pezzetto se ne andasse. 

Anche quando è A a partire, ma in questo caso è più gestibile, perché sono sempre a casa con tante cose a tenermi compagnia e tutte le persone che non sono scomparse, dato che io sono sempre lì, anzi, sono sola e disponibilissima a vederle in qualunque momento e per qualunque motivo.

Ho scritto tutto ciò perché domani (al momento in cui scrivevo) devo partire. Adesso sono già passati due giorni, e sono partita l’altro ieri. 

Quindi si avvicina il momento più bello di tutte le partenze: il momento del ritorno, chiaramente. 

Non so se è meglio il giorno del ritorno o il giorno subito prima, in cui si sta ancora immersi nella realtà del viaggio ma ci si sente già con metà corpo a casa, a fare piani con le persone che sembrano non essere scomparse. Ma forse il giorno prima della partenza è bello solo in quanto anticamera di un giorno bello, ovvero il ritorno. 

Secondo me i ritorni sono sottovalutati. Si parla tanto delle partenze, ma non abbastanza dei ritorni. E anche io, alla fine, nonostante il mio odio, ho parlato delle partenze. 


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